77 x PRISMA: 5 corti indipendenti da guardare a luglio

Tornano giovedì 18 luglio i Prisma Awards al Cinema Farnese di Roma per portare in sala cinque corti indipendenti internazionali: dall’animazione canadese alla dark comedy italiana.

What Rhymes With Toxic, Lynn Smith, Canada, 5’

corti indipendenti da guardare a luglio: What Rhymes With Toxic

La veterana dell’animazione canadese Lynn Smith (classe 1942!) mette in scena la dialettica natura-uomo, vita-morte, universo indipendente-mondo burocratico. Con uno stile inconfondibile che sfrutta pittura e collage, il corto What Rhymes with Toxic strumentalizza simultaneamente l’umorismo e l’incombenza della tragedia per restituire un orizzonte tragicomico e tremendamente realistico.

With All Due Humanity, Kacper Checinski, Francia, 24’

corti indipendenti da guardare a luglio: With All Due Humanity

Il corto premiato come miglior opera prima al Festival di Clermont-Ferrand 2024 e in concorso al Court de Brest 2023 di Kacper Checinski è un climax di tensione e suspense. Il sonoro ci accompagna in una voragine angosciante e ci lascia empatizzare con un personaggio del quale non abbiamo altro che piccoli pezzi di un mosaico che rimarrà incompleto.

Buona da morire, Cabiria Lizzi, Mattia Romagnoli e Leonardo Moretti, Italia, 8’

corti indipendenti da guardare a luglio: Buona da morire

Tra interrogativi filosofici sul destino e delineamenti sul concetto di bene/male, i registi Cabiria Lizzi, Mattia Romagnoli e Leonardo Moretti dissacrano l’improfanabile con sarcasmo e black humor. Vincitore italiano del 48ore Film festival e presente alla premiere internazionale nella sezione Short Film Corner del Festival di Cannes 2024, Buona da morire ridicolizza il dogma della morte e tutta la sua ritualità, elevando l’ironia a reale connettore tra i tre protagonisti.

Nada de todo esto, Patricio Martínez e Francisco Cantón, Argentina/Spagna/USA, 17′

corti indipendenti da guardare a luglio: Nada de todo esto

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, il cortometraggio dei due registi impersonifica l’attuale e perpetua lotta di classe che pregna la società argentina. Il rapporto madre-figlia si rafforza grazie alla comprensione del bisogno, della necessità e della debolezza dell’altra e alla decostruzione dei ruoli predisposti. La figlia si fa madre, la madre si fa figlia e insieme si fronteggia la (s)fortuna di non possedere abbastanza.

Auxiliaire, Lucas Bacle, Francia, 24′

corti da guardare a luglio: Auxiliaire

In concorso al Festival di Clermont-Ferrand 2023, una tenera narrazione sull’avvicinarsi e, contemporaneamente, sull’evitamento di un distacco. Marc vive in simbiosi con Quentin, un amico completamente dipendente dalle sue cure. Tale interconnessione porta a conseguenze estreme per entrambi: una grande intesa ma anche un vasto spettro di fantasmi di rimpianti e dubbi.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

donna disegnata che fuma alla finestra suzan pitt

Suzan Pitt: la surreale mostruosità del desiderio femminile

Jude Ellison Sady Doyle, nel saggio Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021) teorizza come ciò che non è inquadrabile in definizioni precostituite, e che quindi non si può controllare, spaventa, e per esorcizzarlo lo si trasforma in un mostro. Una donna diventa mostruosa quando è libera dal controllo eterocispatriarcale, quando non si può definire, non si può ammansire, non si può manipolare. E vale anche per il desiderio femminile. Miracolo o mostruosità? È proprio questa la domanda chiave posta dal cortometraggio d’animazione El Doctor (2006) di Suzan Pitt (1943-2019) di fronte a fiori che sbocciano da un corpo umano.


Nelle opere della regista e artista statunitense Suzan Pitt il mostruoso femminile si fa surreale: si assiste spesso a dinamiche che rifuggono l’ordine precostituito, in nome di un desiderio di libertà, di rappresentazione e di possibilità più ampio e variegato che assume la forma di un sogno lucido lisergico e trippy, come nel cortometraggio d’animazione Joy street (1995), in cui la protagonista ritrova la voglia di vivere attraverso l’aiuto di un topo emerso da un posacenere e della connessione con la natura, intesa come metafora di cura. Sulle note diegetiche di What a Wonderful World di Louis Armstrong, viene così ridisegnata l’immagine della depressione in ottica vitale e femminista. Un’ottica radicalmente opposta rispetto a quella predominante nella rappresentazione della storia del cinema (e nella società, essendo il primo riflesso della seconda).  

suzan pitt mostruoso femminile asparagus film

Riprendendo il concetto di male gaze teorizzato nel 1975 dalla critica britannica Laura Mulvey, nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Suzan Pitt prende come modello la dualità binaria consolidata (maschile-attivo e femminile-passivo), per poi ribaltarlo completamente. In una gabbia sociale in cui per i sogni e i desideri delle soggettività marginalizzate non c’è spazio, lei, quei sogni e desideri li prende e ne iper satura i colori, lasciando che lo spazio se lo prendano tutto, pervadendo lo schermo e chi ne fruisce. Lo fa ad esempio con Asparagus (1979), il suo più celebre corto di animazione e claymation, in cui rappresenta una sessualità femminile libera e consapevole.


Il film si apre con l’immagine di un serpente che avvolge una gamba con un tacco rosso, simbolo sovente affiancato alla femminilità tradizionale costruita dallo sguardo maschile e performata all’interno della società patriarcale. I due elementi rimandano immediatamente al Giardino dell’Eden, in cui Eva, considerata la prima donna della storia secondo la visione cristiano-cattolica, si macchia della colpa del peccato originario e, per causa sua, l’intera umanità dovrà caricarsi dei mali del mondo, ma in un’ottica ribaltata: Suzan Pitt rivendica il desiderio femminile, marcando con orgoglio il valore della conoscenza e dell’emancipazione dai dettami calati dall’alto. Eppure, nonostante l’insistenza sui simboli di autodeterminazione, la protagonista rivela poi di essere senza volto, senza identità, come a chiedersi e chiederci: è possibile trovare una propria affermazione quando non si ha lo spazio per farlo, se non lottando e utilizzando strumenti spesso legati al privilegio e dunque non accessibili a tutte, e non rimane altra scelta che accettare di rifugiarsi nella performance di un’auto rappresentazione data da modelli imposti esternamente?

In uno dei momenti iniziali del film il soggetto protagonista, rappresentato con i tratti di una donna, accende una luce dalla forma clitoridea: un evidente rimando all’erotismo (femminile) come momento costitutivo di una soggettività, e che quindi va rivendicato come irriducibilmente libero, ambiguo, stratificato, che si ribella a ogni tipo di incasellamento. Le prime pubblicazioni rilevanti a questo proposito sono The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, attivista femminista e autrice statunitense, e Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) di Carla Lonzi, attivista, saggista, critica ed editrice italiana; entrambi scritti poco prima dell’uscita di Asparagus. Nel primo, l’autrice contesta i resoconti sulla sessualità femminile che considerano l’orgasmo clitorideo come immaturo, disfunzionale o frigido. Nel secondo, Lonzi, costruisce la soggettività femminile proprio a partire dall’orgasmo clitorideo, non solo in quanto non subalterno ma del tutto indipendente all’uomo.


Un altro simbolo di costrizione patriarcale è rappresentato da una casa giocattolo posta su un tavolino in Asparagus, al cui interno vi è un’altra casa, e al cui interno si trova un’altra casa ancora, in un inquietante e opprimente effetto Droste che sottolinea l’incatenante mancanza di scelta e libertà per le soggettività femminili. Ma la visione di Suzan Pitt del desiderio femminile è tanto surreale e dark quanto intrisa di potenza e solidità, come se attraverso le sue opere volesse incoraggiare a una ribellione, ma una ribellione intima e stratificata, che con autentico struggimento si interroga e si prende tutto lo spazio che vuole, liberando tutti i desideri da ogni tipo di repressione e manipolazione patriarcale. Così, in una scena finale marcatamente onirica, la protagonista di Asparagus rilascia i suoi, di desideri, precedentemente stipati simbolicamente in una borsa, in un teatro gremito di gente che guarda: finalmente tutto quel colore e quel sogno hanno diritto di essere, di esistere, hanno uno spazio.

Un sogno può essere più reale del reale, perché contiene la possibilità che i desideri prendano spazio. È una dimensione, quella dell’onirico surreale, onnipresente nei lavori di Pitt, che esprimono una realtà espansa, fatta (anche) di irrazionalità e di inconscio. Crocus (1971), suo primo corto d’animazione, è un sogno a occhi aperti inscritto in mura domestiche, ambientato principalmente in una camera da letto – dettaglio che va ulteriormente a richiamare la situazione onirica. I personaggi sono ingabbiati in ruoli familiari statici e immobilizzanti, al punto che non riescono a muoversi in maniera fluida ma solo meccanicamente. L’unico elemento slegato da questo immobilismo è la flora, che entra in scena librandosi nell’aria e uscendo dalla finestra aperta sul mondo esterno e sulle sue infinite possibilità, come a rappresentare il desiderio femminile che si trova una via di fuga e libertà dalla casa con le sue costrizioni patriarcali. I desideri e i sogni sono colorati, prendono spazio, escono dalla casa, vivono.


La rivoluzione della protagonista avviene anche attraverso due mezzi di rappresentazione: la macchina da presa e lo specchio. In una scena emblematica del film, compare la suo alter ego riflessa allo specchio con in mano la camera, andando a suggerire l’equiparazione tra l’esperienza di identificazione cinematografica e gli stati onirici: entrambi offrono un’esperienza che può anche essere distante dalla realtà quotidiana, richiedendo una temporanea sospensione della vita ordinaria e delle regole annesse, permettendo di esplorare, talvolta in modo esplicito, esigenze e desideri che potrebbero altrimenti inammissibili nella vita reale, e Suzan Pitt questo lo sa bene. Dopo qualche secondo, termina l’atto di auto-voyeurismo e il soggetto pare prendere consapevolezza di sé e delle proprie fantasie. Consapevolezza ancora troppo ingombrante per il mondo a lei esteriore in cui è suo malgrado immersa: a fine cortometraggio le tende della casa, così come gli occhi, si chiudono, e il sogno ricomincia.


Margherita Conti

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

donna disegnata che fuma alla finestra suzan pitt

Suzan Pitt: la surreale mostruosità del desiderio femminile

Jude Ellison Sady Doyle, nel saggio Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021) teorizza come ciò che non è inquadrabile in definizioni precostituite, e che quindi non si può controllare, spaventa, e per esorcizzarlo lo si trasforma in un mostro. Una donna diventa mostruosa quando è libera dal controllo eterocispatriarcale, quando non si può definire, non si può ammansire, non si può manipolare. E vale anche per il desiderio femminile. Miracolo o mostruosità? È proprio questa la domanda chiave posta dal cortometraggio d’animazione El Doctor (2006) di Suzan Pitt (1943-2019) di fronte a fiori che sbocciano da un corpo umano.


Nelle opere della regista e artista statunitense Suzan Pitt il mostruoso femminile si fa surreale: si assiste spesso a dinamiche che rifuggono l’ordine precostituito, in nome di un desiderio di libertà, di rappresentazione e di possibilità più ampio e variegato che assume la forma di un sogno lucido lisergico e trippy, come nel cortometraggio d’animazione Joy street (1995), in cui la protagonista ritrova la voglia di vivere attraverso l’aiuto di un topo emerso da un posacenere e della connessione con la natura, intesa come metafora di cura. Sulle note diegetiche di What a Wonderful World di Louis Armstrong, viene così ridisegnata l’immagine della depressione in ottica vitale e femminista. Un’ottica radicalmente opposta rispetto a quella predominante nella rappresentazione della storia del cinema (e nella società, essendo il primo riflesso della seconda).  

suzan pitt mostruoso femminile asparagus film

Riprendendo il concetto di male gaze teorizzato nel 1975 dalla critica britannica Laura Mulvey, nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Suzan Pitt prende come modello la dualità binaria consolidata (maschile-attivo e femminile-passivo), per poi ribaltarlo completamente. In una gabbia sociale in cui per i sogni e i desideri delle soggettività marginalizzate non c’è spazio, lei, quei sogni e desideri li prende e ne iper satura i colori, lasciando che lo spazio se lo prendano tutto, pervadendo lo schermo e chi ne fruisce. Lo fa ad esempio con Asparagus (1979), il suo più celebre corto di animazione e claymation, in cui rappresenta una sessualità femminile libera e consapevole.


Il film si apre con l’immagine di un serpente che avvolge una gamba con un tacco rosso, simbolo sovente affiancato alla femminilità tradizionale costruita dallo sguardo maschile e performata all’interno della società patriarcale. I due elementi rimandano immediatamente al Giardino dell’Eden, in cui Eva, considerata la prima donna della storia secondo la visione cristiano-cattolica, si macchia della colpa del peccato originario e, per causa sua, l’intera umanità dovrà caricarsi dei mali del mondo, ma in un’ottica ribaltata: Suzan Pitt rivendica il desiderio femminile, marcando con orgoglio il valore della conoscenza e dell’emancipazione dai dettami calati dall’alto. Eppure, nonostante l’insistenza sui simboli di autodeterminazione, la protagonista rivela poi di essere senza volto, senza identità, come a chiedersi e chiederci: è possibile trovare una propria affermazione quando non si ha lo spazio per farlo, se non lottando e utilizzando strumenti spesso legati al privilegio e dunque non accessibili a tutte, e non rimane altra scelta che accettare di rifugiarsi nella performance di un’auto rappresentazione data da modelli imposti esternamente?

In uno dei momenti iniziali del film il soggetto protagonista, rappresentato con i tratti di una donna, accende una luce dalla forma clitoridea: un evidente rimando all’erotismo (femminile) come momento costitutivo di una soggettività, e che quindi va rivendicato come irriducibilmente libero, ambiguo, stratificato, che si ribella a ogni tipo di incasellamento. Le prime pubblicazioni rilevanti a questo proposito sono The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, attivista femminista e autrice statunitense, e Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) di Carla Lonzi, attivista, saggista, critica ed editrice italiana; entrambi scritti poco prima dell’uscita di Asparagus. Nel primo, l’autrice contesta i resoconti sulla sessualità femminile che considerano l’orgasmo clitorideo come immaturo, disfunzionale o frigido. Nel secondo, Lonzi, costruisce la soggettività femminile proprio a partire dall’orgasmo clitorideo, non solo in quanto non subalterno ma del tutto indipendente all’uomo.


Un altro simbolo di costrizione patriarcale è rappresentato da una casa giocattolo posta su un tavolino in Asparagus, al cui interno vi è un’altra casa, e al cui interno si trova un’altra casa ancora, in un inquietante e opprimente effetto Droste che sottolinea l’incatenante mancanza di scelta e libertà per le soggettività femminili. Ma la visione di Suzan Pitt del desiderio femminile è tanto surreale e dark quanto intrisa di potenza e solidità, come se attraverso le sue opere volesse incoraggiare a una ribellione, ma una ribellione intima e stratificata, che con autentico struggimento si interroga e si prende tutto lo spazio che vuole, liberando tutti i desideri da ogni tipo di repressione e manipolazione patriarcale. Così, in una scena finale marcatamente onirica, la protagonista di Asparagus rilascia i suoi, di desideri, precedentemente stipati simbolicamente in una borsa, in un teatro gremito di gente che guarda: finalmente tutto quel colore e quel sogno hanno diritto di essere, di esistere, hanno uno spazio.

Un sogno può essere più reale del reale, perché contiene la possibilità che i desideri prendano spazio. È una dimensione, quella dell’onirico surreale, onnipresente nei lavori di Pitt, che esprimono una realtà espansa, fatta (anche) di irrazionalità e di inconscio. Crocus (1971), suo primo corto d’animazione, è un sogno a occhi aperti inscritto in mura domestiche, ambientato principalmente in una camera da letto – dettaglio che va ulteriormente a richiamare la situazione onirica. I personaggi sono ingabbiati in ruoli familiari statici e immobilizzanti, al punto che non riescono a muoversi in maniera fluida ma solo meccanicamente. L’unico elemento slegato da questo immobilismo è la flora, che entra in scena librandosi nell’aria e uscendo dalla finestra aperta sul mondo esterno e sulle sue infinite possibilità, come a rappresentare il desiderio femminile che si trova una via di fuga e libertà dalla casa con le sue costrizioni patriarcali. I desideri e i sogni sono colorati, prendono spazio, escono dalla casa, vivono.


La rivoluzione della protagonista avviene anche attraverso due mezzi di rappresentazione: la macchina da presa e lo specchio. In una scena emblematica del film, compare la suo alter ego riflessa allo specchio con in mano la camera, andando a suggerire l’equiparazione tra l’esperienza di identificazione cinematografica e gli stati onirici: entrambi offrono un’esperienza che può anche essere distante dalla realtà quotidiana, richiedendo una temporanea sospensione della vita ordinaria e delle regole annesse, permettendo di esplorare, talvolta in modo esplicito, esigenze e desideri che potrebbero altrimenti inammissibili nella vita reale, e Suzan Pitt questo lo sa bene. Dopo qualche secondo, termina l’atto di auto-voyeurismo e il soggetto pare prendere consapevolezza di sé e delle proprie fantasie. Consapevolezza ancora troppo ingombrante per il mondo a lei esteriore in cui è suo malgrado immersa: a fine cortometraggio le tende della casa, così come gli occhi, si chiudono, e il sogno ricomincia.


Margherita Conti

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