Trasposizione della pièce teatrale scritta e diretta dallo sceneggiatore Filippo Gili e dal regista Francesco Frangipane, Dall’alto di una fredda torre pone Elena e Antonio, sorella e fratello, di fronte a un dilemma tragico eppure necessario – se anche una sola vita può essere salvata, è nostro dovere salvarla. Entrambi i genitori sono colpiti da una malattia genetica che intacca i tessuti midollari, ma solo Elena risulta compatibile per la donazione. Devono dunque decidere quale dei due genitori salvare e quale, di conseguenza, lasciare morire. Dallo spunto narrativo appare subito esplicita l’eredità della tragedia greca che il film riattualizza: il destino, ineluttabile e impossibile da aggirare, che scoperchia questioni di natura morale (innanzitutto la responsabilità di agire e di non agiro) all’interno un paradigma di dolore, di elaborazione o superamento di un lutto.
Nel cinema contemporaneo la tragedia greca vive, rivive spesso, e Dall’alto di una fredda torre è l’ultima opera che attinge ai miti arcaici per rileggerli e usarli come filtro per parlare del presente, permettendoci di confrontare diverse modalità emblematiche in cui altri film hanno attuato lo stesso tipo di trasposizione.

Athena, Romain Gavras, Francia, 2022: Medea come metafora di classe
Romain Gavras in Athena – dal titolo esplicito e il cui sottotitolo recitava “une tragédie” – mette in scena una guerra civile in un immaginario conglomerato di case popolari sulla scorta delle banlieue parigine, causata dalla morte di un ragazzo per mano della polizia. La sete di vendetta contro le forze dell’ordine si espande a tutta la comunità, eppure la storia di Athena è una storia di fratelli, che frammentano il film in visioni diverse e punti di vista obliqui ma intrecciati dall’unità aristotelica di tempo – dall’alba alla notte – e di spazio – il quartiere Athena, cittadina assediata in un crescendo di pathos cinematografico (piani sequenza articolatissimi, coreografie di guerriglia, ritmo incessante) e musicale.
L’azione è accompagnata, ha scritto Elena Sofia Capra in Visioni del tragico, “dal canto (inarticolato) di un coro, omaggio all’importanza della dimensione corale nell’evento tragico antico”. Per Capra, nella storia dei fratelli di Athena si possono rintracciare temi narrativi e caratterizzazioni che ricordano l’Antigone sofoclea, come l’evento che dà il via alla ribellione: un corpo fraterno, che qui viene oltraggiato “non perché insepolto ma perché invendicato”.

Saint Omer, Alice Diop, Francia, 2022: la tragedia contemporanea di Medea
Una vertiginosa riscrittura contemporanea di Medea è quella di Alice Diop in Saint Omer, dopo i casi seminali di Lars von Trier (1988), Ripstein (2001) e Pasolini (1969), la cui Medea/Callas compare per qualche secondo proprio sullo schermo della protagonista del film di Diop, scrittrice e docente universitaria di letteratura francese. Incinta, e da sempre in un rapporto conflittuale con la madre, Rama si interessa al caso giudiziario di Madame Coly, ventiquattrenne di origine senegalese accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi. Un courtroom drama, se si volesse ridurre Saint Omer a un genere, la cui attualizzazione di Medea passa per la questione (che Diop lascia volutamente aperta) della millantata identità multiculturale francese e della concreta difficoltà dell’integrazione e delle esperienze migratorie.
È prevalentemente ambientato e girato in un’aula di tribunale, che qui assume le fattezze di un palcoscenico, dal quale assistere all’incontro tra un’impostazione teatrale nella scrittura – fatta perlopiù di monologhi o di dialoghi – e il cinema come modalità di rappresentazione, come una presa di posizione (visiva, cioè di campo) sui personaggi capace di mettere a disagio e di incrinare le certezze morali. Un palcoscenico, l’aula, che rimodula la tragedia greca dell’infanticidio a partire dall’ambiguità del volto e della voce di Coly/Medea, a cui si affiancano le prospettive degli altri personaggi, come quella del padre della neonata, un vecchio e codardo Giasone, o quella dell’inflessibile pubblico ministero, o ancora dell’avvocata di Madame Coly, il cui monologo finale sembra essere un manifesto d’intenti della regista stessa: in questa “tragica discesa negli inferi”, recita nel discorso difensore, “siamo per certi versi tutti dei mostri, ma mostri terribilmente umani”.

Non aprite quella porta, Tobe Hooper, USA, 1974: la tragedia e l’horror
Di mostri si può parlare, come scrive Ludovico Cantisani in Maschere di gomma ed epifanie negative. L’horror americano e la tragedia greca su Minima&Moralia, se si cerca un filo diretto tra la tragedia e il cinema horror (classico e contemporaneo), che gioca su medesime categorie di pensiero: l’ineluttabilità, la sensazione che qualcosa di rovinoso cadrà fatalmente sui personaggi e, soprattutto, la “problematizzazione della conoscenza”. Conoscere, nella tragedia quanto nell’horror, è il vero male: i personaggi, che siano l’Edipo diventato re o dei ragazzi vittime della loro superbia che aprono proprio quella porta, soffrono solo una volta scoperta la verità.
E la questione – drammaturgica, e ancora una volta etica della conoscenza passa dalla visione, che accentua il rapporto tra il paradigma tragico e quello cinematografico – come accecamenti (ancora Edipo) od ossessioni voyeuristiche (Penteo che nelle Baccanti è preso, senza alcun rimedio, dal desiderio di vedere le donne nude tra i boschi) in cui è la visione, o il suo annullamento, a costituire una fonte di pathos nell’economia di molte tragedie antiche, così come anche di molto cinema.

Il sacrificio del cervo sacro, Yorgos Lanthimos, Irlanda/UK, 2017: una catarsi impossibile
La scoperta di una malattia incurabile e l’impossibilità di salvare entrambi i genitori costituiscono il pattern tragico di Dall’alto di una fredda torre, ambientato in un’Umbria contemporanea ma quasi isolata dal resto del mondo, senza che sia data al pubblico e ai personaggi la possibilità di vedere oltre la fitta nebbia che la circonda. Qui Elena e Antonio, due gemelli che conducono una vita solitaria, visitano gli anziani genitori ogni settimana. La notizia della malattia, che mette in crisi tutti i rapporti del film, squarcia la tranquillità borghese di una casa ben arredata, dei pranzi domenicali, della manutenzione di un podere di campagna. Oltre alla dimensione emotiva, sono i dilemmi morali a portare Elena e Antonio a vedere e rivedere le proprie decisioni, compresa quella di non fare nulla: in un dialogo continuo tra sentimenti e ragione, sono travolti dal destino e sembrano non riuscire a trovare una via d’uscita dalla catastrofe in cui sono stati catapultati, entrando in una dimensione di conflitto con gli unici personaggi esterni alla famiglia, i dottori.
Ecco che, pur con le dovute differenze, troviamo al centro di Dall’alto di una fredda torre gli stessi motivi di tema morale (non solo azione/inazione, ma anche scienza/fede) dell’autore che più di tutti porta la tragedia greca al cinema: Yorgos Lanthimos. Prendendo qui come riferimento Il sacrificio del cervo sacro, ritroviamo nel film di Frangipane il medesimo tema morale che si infiltra nella vita borghese (finché era ancora borghese) di un chirurgo per scarnificarne le certezze in nome di un fine sconosciuto ma ineluttabile. Il dramma prende forme diverse: se nel film di Lanthimos è anestetizzato da una regia formalista, in Dall’alto di una fredda torre viene fatto esplodere nei volti, nei corpi e nelle voci di Edoardo Pesce e Vanessa Scalera, portatori di due temperamenti e performance simmetrici e complementari (lui chiuso e contenuto, lei impetuosa e istintiva). Ad accomunare Lanthimos e Frangipane è la scelta di fare deragliare la tragedia, aprendo questioni inaspettate e inaggirabili all’interno della mutata cornice sociale, o meglio, di una società che ha cessato di funzionare. Se nella tragedia greca era infatti la comunità (impersonificata dal coro) a fornire un orizzonte etico e di giustizia ai personaggi, cosa fare quando questo è crollato insieme alla idea stessa di comunità?
I personaggi di Dall’alto di una fredda torre e de Il sacrificio del cervo sacro sono messi di fronte a scelte che non possono essere controbilanciate dal mondo esterno, da cui sembrano isolati: per entrambi i registi non c’è più contatto, oggi, tra l’individuo e la dimensione extra-individuale. Ed è per questo che la risoluzione rimane impossibile: la risoluzione catartica della tragedia viene espunta, la narrazione appare mutilata e nell’indeterminatezza del finale c’è, forse, il desiderio di fare completare le storie da chi a queste storie ha assistito rimettendosi al giudizio del pubblico-comunità, ovvero il nuovo coro, e fidandosi, con tutto lo scetticismo possibile, della sua umanità.