Una notte a New York, film d’esordio di Christy Hall che nasce come un’opera teatrale, assistiamo all’incontro tra un tassista newyorkese, Clark, e una ragazza di ritorno dall’Oklahoma, Girlie, che velocemente instaurano uno scambio sincero, fatto di provocazioni e reciproca autenticità. La struttura dell’opera rimanda all’intimità tipica di un palcoscenico, trasposta però sullo schermo, che permette alla conversazione di procedere fino all’oversharing, insinuando lentamente una curiosità nel pubblico: ma cos’è, esattamente, che crea questa connessione tra due persone sconosciute?
Il film porta così a riflettere sui meccanismi delle interazioni sociali, che, secondo questa ricerca dell’Università del Sussex, sembrerebbero sollevare l’umore, l’energia e il benessere generale, creando un senso di appartenenza condivisa. Gli stessi protagonisti arrivano a discutere delle dinamiche del giudizio e della percezione che scaturiscono da un incontro: tendenzialmente, una persona estranea si farà un’idea di noi basata su caratteristiche esterne e superficiali (come il colore della pelle o il modo in cui vestiamo), ma, il fatto che non conosca niente di noi, può portarla a smantellare o alleggerire possibili pregiudizi piuttosto velocemente, soprattutto tramite il modo in cui decidiamo di raccontarci e le informazioni che noi le forniamo – le quali, anche se inventate, possono plasmare o manipolare la sua idea di noi.

Ognuno di noi, nel conoscere qualcuno di nuovo, attiva infatti inconsapevolmente i propri bias per cercare di decifrare e interpretare quella persona. E nei primi minuti di corsa del taxi è Clark ad applicare questi schemi per tentare di delineare la personalità della cliente: nota che lei non usa il cellulare, concludendo che questo la rende più umana, e quando viene a conoscenza che la sua professione è quella della programmatrice, le confessa di aspettarsi un lavoro più “femminile” – tradendo una visione marcatamente binaria e piuttosto retrograda. E allora perché, nonostante tutte queste proiezioni l’uno verso l’altra, i due riescono comunque a creare una connessione così autentica? Lo studio sopracitato afferma che i pregiudizi nei confronti di persone estranee sono spesso meno profondi e meno radicati rispetto a quelli che proiettiamo invece su chi conosciamo da molto tempo, verso cui abbiamo sviluppato strutture di pensiero ormai consolidate; idee che ci portano ad approcciare le loro azioni in modo prevenuto e pregiudiziale, sulla base di loro pattern comportamentali che nel tempo abbiamo visto reiterarsi e di nostre aspettative che proiettiamo. Questa dinamica è spesso una gabbia nei rapporti di lunga data, perché rende faticoso per chi ci è accanto notare il già faticoso lavoro di cambiamento e trasformazione che eventualmente decidiamo di esercitare su certi aspetti di noi, portando loro a non valorizzarlo e noi a sentire il peso del giudizio ancora prima che venga (eventualmente) espresso.
Confidarci con qualcuno che non conosciamo, quindi, può rivelarsi a volte più semplice e in una certa misura liberatorio, in quanto né noi né loro possiamo prevedere le reciproche reazioni, né proiettare le proprie aspettative, con la consapevolezza che le sue risposte e i suoi pareri non saranno dettati da convinzioni radicalizzatesi nel corso del tempo. Il parere di qualcuno che ci conosce, in sostanza, ci ferisce di più perché abbiamo paura di riconoscervi della verità – trasformandolo in giudizio, anche quando spesso non è quello il caso. Con queste premesse, il dialogo tra i due protagonisti si trasforma velocemente in una sfida su chi svelerà la verità più intima e inconfessabile, richiamando il fenomeno dell’oversharing – quelle situazioni altamente memabili in cui ci ritroviamo a strabordare con la condivisione di nostre informazioni personali. Sentirci a nostro agio nell’esprimerci con qualcuno è un’occasione preziosa, ed ecco che ne approfittiamo finendo a raccontare la storia della nostra vita a una ragazza conosciuta nel bagno di un locale. Ma l’esperienza dell’oversharing ha radici in stati d’animo ben più profondi e complessi, come riportato da questo articolo, e spesso si verifica durante periodi di forte stress, di tendenze depressive o l’attraversamento di un trauma emotivo, nel tentativo di trovare una compensazione. Tuttavia, questa dinamica ci lascia la sensazione di aver avuto uno scambio non equo né arricchente, anzi, nel momento in cui si realizza di aver condiviso troppo, spesso ci assale l’imbarazzo e la voglia di rimangiarci tutto. Negli ultimi anni la Gen Z ha riempito il web con meme di questo, ma l’ovesharing ha a che fare solo con le nuove generazioni?

A differenza del film in cui la distanza di età tra i protagonisti non crea alcuna barriera nella comunicazione, molti trend online vertono sulla difficoltà delle nuove generazioni di interagire con quelle che le hanno precedute, nella vita privata ma anche nei luoghi di lavoro. TikTok pullula di meme a riguardo, come quello in cui si compara lo slang della Gen Z e quello della generazione Millennial. Soprattutto, la generazione che stava costruendo le basi della socializzazione e dei rapporti interpersonali proprio durante la pandemia ha sentito l’impatto delle restrizioni per quanto riguarda comunicazione, negoziazione, public speaking e risoluione dei conflitti; argomento che i creator di tutto il mondo hanno sfruttato ampiamente, come in questo trend. Sono infatti numerosi gli studi che indagano il fenomeno, come questo articolo, che parla di quanto la pandemia abbia influito non solo sui disturbi legati all’ansia sociale, ma anche su dinamiche che riguardano la struttura della comunità, dei gruppi e della condivisione.
Le frasi motivazionali da boomer, diventate funny quote stampate su tazze e cuscini della generazione Millennial e degenerate nella “positività tossica” di cui si parla in questo articolo, sono un’altra risposta all’incapacità di negoziare con la collettività, respingendo ogni feedback esterno così da chiudersi in sé e non intraprendere un lavoro interiore complesso che ha bisogno della relazione con l’esterno, necessario all’individuazione del proprio centro di gravità, di una comfort zone solida che parte da dentro di noi e si struttura nel dialogo con l’esterno. Perché “è proprio all’interno del mito dell’autonomia che si sono formate le norme del patriarcato, e per questo l’unica risposta è la cultura della cura che non considera la dipendenza come una fragilità o una malattia, un limite a definirsi, ma una modalità costitutiva di ogni soggettività che vive in relazione alle altre soggettività. L’essere con è la condizione esistenziale di ogni soggettività” – citando Astri Amari. Ed ecco che l’oversharing, agito con consapevolezza e consenso, può diventare una pratica radicale di inversione della tendenza dominante, in cui l’apertura bidirezionale verso l’altro “sfida non solo la dicotomia capitalista tra ‘autonomia’ e ‘dipendenza’ ma anche quella tra ‘successo’ e ‘fallimento'”.