donna disegnata che fuma alla finestra suzan pitt

Suzan Pitt: la surreale mostruosità del desiderio femminile

Jude Ellison Sady Doyle, nel saggio Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021) teorizza come ciò che non è inquadrabile in definizioni precostituite, e che quindi non si può controllare, spaventa, e per esorcizzarlo lo si trasforma in un mostro. Una donna diventa mostruosa quando è libera dal controllo eterocispatriarcale, quando non si può definire, non si può ammansire, non si può manipolare. E vale anche per il desiderio femminile. Miracolo o mostruosità? È proprio questa la domanda chiave posta dal cortometraggio d’animazione El Doctor (2006) di Suzan Pitt (1943-2019) di fronte a fiori che sbocciano da un corpo umano.


Nelle opere della regista e artista statunitense Suzan Pitt il mostruoso femminile si fa surreale: si assiste spesso a dinamiche che rifuggono l’ordine precostituito, in nome di un desiderio di libertà, di rappresentazione e di possibilità più ampio e variegato che assume la forma di un sogno lucido lisergico e trippy, come nel cortometraggio d’animazione Joy street (1995), in cui la protagonista ritrova la voglia di vivere attraverso l’aiuto di un topo emerso da un posacenere e della connessione con la natura, intesa come metafora di cura. Sulle note diegetiche di What a Wonderful World di Louis Armstrong, viene così ridisegnata l’immagine della depressione in ottica vitale e femminista. Un’ottica radicalmente opposta rispetto a quella predominante nella rappresentazione della storia del cinema (e nella società, essendo il primo riflesso della seconda).  

suzan pitt mostruoso femminile asparagus film

Riprendendo il concetto di male gaze teorizzato nel 1975 dalla critica britannica Laura Mulvey, nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Suzan Pitt prende come modello la dualità binaria consolidata (maschile-attivo e femminile-passivo), per poi ribaltarlo completamente. In una gabbia sociale in cui per i sogni e i desideri delle soggettività marginalizzate non c’è spazio, lei, quei sogni e desideri li prende e ne iper satura i colori, lasciando che lo spazio se lo prendano tutto, pervadendo lo schermo e chi ne fruisce. Lo fa ad esempio con Asparagus (1979), il suo più celebre corto di animazione e claymation, in cui rappresenta una sessualità femminile libera e consapevole.


Il film si apre con l’immagine di un serpente che avvolge una gamba con un tacco rosso, simbolo sovente affiancato alla femminilità tradizionale costruita dallo sguardo maschile e performata all’interno della società patriarcale. I due elementi rimandano immediatamente al Giardino dell’Eden, in cui Eva, considerata la prima donna della storia secondo la visione cristiano-cattolica, si macchia della colpa del peccato originario e, per causa sua, l’intera umanità dovrà caricarsi dei mali del mondo, ma in un’ottica ribaltata: Suzan Pitt rivendica il desiderio femminile, marcando con orgoglio il valore della conoscenza e dell’emancipazione dai dettami calati dall’alto. Eppure, nonostante l’insistenza sui simboli di autodeterminazione, la protagonista rivela poi di essere senza volto, senza identità, come a chiedersi e chiederci: è possibile trovare una propria affermazione quando non si ha lo spazio per farlo, se non lottando e utilizzando strumenti spesso legati al privilegio e dunque non accessibili a tutte, e non rimane altra scelta che accettare di rifugiarsi nella performance di un’auto rappresentazione data da modelli imposti esternamente?

In uno dei momenti iniziali del film il soggetto protagonista, rappresentato con i tratti di una donna, accende una luce dalla forma clitoridea: un evidente rimando all’erotismo (femminile) come momento costitutivo di una soggettività, e che quindi va rivendicato come irriducibilmente libero, ambiguo, stratificato, che si ribella a ogni tipo di incasellamento. Le prime pubblicazioni rilevanti a questo proposito sono The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, attivista femminista e autrice statunitense, e Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) di Carla Lonzi, attivista, saggista, critica ed editrice italiana; entrambi scritti poco prima dell’uscita di Asparagus. Nel primo, l’autrice contesta i resoconti sulla sessualità femminile che considerano l’orgasmo clitorideo come immaturo, disfunzionale o frigido. Nel secondo, Lonzi, costruisce la soggettività femminile proprio a partire dall’orgasmo clitorideo, non solo in quanto non subalterno ma del tutto indipendente all’uomo.


Un altro simbolo di costrizione patriarcale è rappresentato da una casa giocattolo posta su un tavolino in Asparagus, al cui interno vi è un’altra casa, e al cui interno si trova un’altra casa ancora, in un inquietante e opprimente effetto Droste che sottolinea l’incatenante mancanza di scelta e libertà per le soggettività femminili. Ma la visione di Suzan Pitt del desiderio femminile è tanto surreale e dark quanto intrisa di potenza e solidità, come se attraverso le sue opere volesse incoraggiare a una ribellione, ma una ribellione intima e stratificata, che con autentico struggimento si interroga e si prende tutto lo spazio che vuole, liberando tutti i desideri da ogni tipo di repressione e manipolazione patriarcale. Così, in una scena finale marcatamente onirica, la protagonista di Asparagus rilascia i suoi, di desideri, precedentemente stipati simbolicamente in una borsa, in un teatro gremito di gente che guarda: finalmente tutto quel colore e quel sogno hanno diritto di essere, di esistere, hanno uno spazio.

Un sogno può essere più reale del reale, perché contiene la possibilità che i desideri prendano spazio. È una dimensione, quella dell’onirico surreale, onnipresente nei lavori di Pitt, che esprimono una realtà espansa, fatta (anche) di irrazionalità e di inconscio. Crocus (1971), suo primo corto d’animazione, è un sogno a occhi aperti inscritto in mura domestiche, ambientato principalmente in una camera da letto – dettaglio che va ulteriormente a richiamare la situazione onirica. I personaggi sono ingabbiati in ruoli familiari statici e immobilizzanti, al punto che non riescono a muoversi in maniera fluida ma solo meccanicamente. L’unico elemento slegato da questo immobilismo è la flora, che entra in scena librandosi nell’aria e uscendo dalla finestra aperta sul mondo esterno e sulle sue infinite possibilità, come a rappresentare il desiderio femminile che si trova una via di fuga e libertà dalla casa con le sue costrizioni patriarcali. I desideri e i sogni sono colorati, prendono spazio, escono dalla casa, vivono.


La rivoluzione della protagonista avviene anche attraverso due mezzi di rappresentazione: la macchina da presa e lo specchio. In una scena emblematica del film, compare la suo alter ego riflessa allo specchio con in mano la camera, andando a suggerire l’equiparazione tra l’esperienza di identificazione cinematografica e gli stati onirici: entrambi offrono un’esperienza che può anche essere distante dalla realtà quotidiana, richiedendo una temporanea sospensione della vita ordinaria e delle regole annesse, permettendo di esplorare, talvolta in modo esplicito, esigenze e desideri che potrebbero altrimenti inammissibili nella vita reale, e Suzan Pitt questo lo sa bene. Dopo qualche secondo, termina l’atto di auto-voyeurismo e il soggetto pare prendere consapevolezza di sé e delle proprie fantasie. Consapevolezza ancora troppo ingombrante per il mondo a lei esteriore in cui è suo malgrado immersa: a fine cortometraggio le tende della casa, così come gli occhi, si chiudono, e il sogno ricomincia.


Margherita Conti

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Cosa guardare su MUBI a marzo

MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso curatoriale cinematografico.


Per aiutarvi a orientarvi in questa sterminata cineteca online, qui trovate una nostra lista di titoli da non perdere sulla piattaforma; tra nuovi sguardi, perle del passato da riscoprire e titoli che ci hanno colpito in giro per i festival di tutto il mondo.

Matt e Mara, Kazik Radwanski, Canada, 2024 (Cartellone)

Mara ritrova dopo anni un vecchio compagno di college, Matt, con cui riscopre da subito un’intensa connessione. Il rapporto tra i due, nonostante svariate complicanze, cresce e porta entrambi a continue riflessioni su come questo possa definire la loro persona. Un film che riflette sulle forme che può assumere l’amore, su cosa può insegnarci e cosa può farci scoprire di noi, diventando strumento di una ricerca di sé che, per Mara, passerà attraverso il rapporto con Matt.

Grand Theft Hamlet, Pinny Grylls, Sam Crane, UK, 2024 (Cartellone)

Grand Theft Hamlet è la folle impresa di due amici, attori di teatro, che scelgono di portare in scena Amleto nel mondo di GTA; un’idea nata durante la pandemia, periodo in cui i due, disoccupati, si rifugiano dal caos del mondo nell’altrettanto caotico – ma fittizio – mondo Grand Theft Auto Online. Il percorso di Grylls e Crane inizia reclutando attori all’interno della modalità online del gioco, cercando di convincerli, con molte complicazioni, a partecipare alla loro creazione. Documentando il tutto, riescono a creare un progetto che vuole essere portavoce del ruolo dell’arte e della cultura in tempo di crisi.

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Un’opera collettiva che esplora il dissenso e la crisi degli anni Sessanta. I registi indagano l’indifferenza sociale e il tormento della fede, contrapponendo l’innocenza dell’essere umano alla brutalità della Storia. Se Godard destruttura il linguaggio dell’amore e della politica, Bellocchio accende il dibattito rivoluzionario. Un’opera frammentaria e intensa, che non offre risposte ma pone interrogativi, lasciandoci con il peso delle nostre domande.

La antena, Esteban Sapir, Argentina, 2007 (Videoteca)

In un futuro prossimo, gli abitanti di una città hanno perso l’uso della voce e si ritrovano sotto il controllo di MrTv, una sorta di dittatore mediatico che proietta sullo schermo, come didascalie, le loro opinioni, i loro pensieri e le loro riflessioni personali. Un film denso di simbolismi, in cui riecheggia la storia dell’Argentina e della dittatura peronista: non potersi esprimere, essere privati non solo della propria voce ma anche di pensieri e parole, rappresenta il clima di terrore caratterizzante di ogni dittatura.

Medicina per la malinconia, Barry Jenkins, USA, 2008 (Videoteca)

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Un’opera visionaria e malinconica sull’alienazione. David Bowie interpretal l’enigmatico Thomas Jerome Newton, un alieno giunto sulla Terra per salvare il pianeta, ma che finisce per soccombere alle tentazioni umane. Il sogno di tornare a casa si sgretola tra alcol, denaro e manipolazioni governative. Con una narrazione frammentata e immagini ipnotiche, Roeg costruisce una riflessione amara sul consumismo e la perdita di identità. Un film affascinante e disturbante, sospeso tra realtà e allucinazione.

Parasite, Bong Joon Ho, Corea del Sud, 2019 (Videoteca)

La lotta di classe è il tema centrale nel pluripremiato film di Bong Joon Ho, in cui una famiglia povera riesce, grazie al figlio minore, a riscattarsi e a migliorare la propria condizione sociale; a quale costo, però? Un film che porta a interrogarsi sui confini della moralità e che non smette di stupire con colpi di scena che non offrono mai risposte ma sollevano tutti una cruciale domanda: chi è il vero parassita nella nostra società?

Tempo per Amare, Metin Erksan, Turchia, 1965 (Videoteca)

Un dramma intenso e poetico sull’amore impossibile. La storia segue l’incontro tra un giovane pittore e una donna ricca, la cui relazione è segnata da differenze sociali e un destino avverso. Con un uso magistrale del bianco e nero, Erksan esplora il tema del desiderio e del sacrificio con una delicatezza struggente. Un’opera raffinata e malinconica, che lascia un segno grazie alla sua forza visiva e emotiva.

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