Nel 1982 a Cannes un gruppo di registi e registe entra nella stanza 666 dell’hotel Martinez e ciascuno si posiziona su una sedia di fronte a una cinepresa posta davanti a una televisione, che a piacere può essere accesa o spenta. Cinema vs TV. In mezzo, il regista, colui che è in grado di scegliere da che parte stare e che maneggia il linguaggio audiovisivo. Davanti al lui, un foglio con una serie di domande sul cinema. Wim Wenders struttura così Chambre 666, che non è solo un documentario sul cinema, ma uno dei primi momenti in cui si infuoca il dibattito sullo stato del cinema. È possibile considerare il cinema lo stesso di una volta? Il cinema è ancora vivo? La televisione ha preso il sopravvento? Queste sono alcune delle domande a cui Spielberg, Antonioni e Wenders stesso, insieme a tanti altri registi, cercano di trovare risposta nel documentario. Domande più che attuali. Con l’avvento di internet e dei social media, si è riaperto questo stesso dibattito, ma le risposte sarebbero radicalmente diverse.
Chambre 666 si interroga sul linguaggio del medium e sul suo cambiamento provocato dalle innovazioni tecnologiche. Significativo è un commento di Michelangelo Antonioni: “Avremo il cinema in casa. Non avremo neanche più bisogno delle sale cinematografiche. Tutte le strutture oggi esistenti dovranno cadere e non sarà facile, né sarà una cosa breve. Però, probabilmente, tutta questa trasformazione, tutti questi mutamenti avverranno, e noi non potremo farci niente, ci resterà soltanto una cosa da fare ed è quella di adattarsi”. Antonioni riassume così lo stato del cinema negli anni ’80: un medium, un linguaggio che è inevitabilmente destinato a cambiare. Ma il cinema è sempre lo stesso, ciò che muta è il modo in cui noi interagiamo col cinema e come ne fruiamo.

Oggi le sale cinematografiche stanno attraversando una fase di profonda e forse irreversibile crisi, ma siamo noi a non averne più bisogno, perché, come diceva Antonioni, “tutte le strutture dovranno cadere”. E che conseguenze linguistiche e creative comporta questo slittamento? A innescare questo primo cambiamento, che ha provocato i successivi, è stato l’avvento del digitale e, in seguito, dei social media. Di conseguenza, il medium cinematografico è traslato e si è evoluto, secondo un fenomeno che si definisce rilocazione: può cambiare il dispositivo, ovvero si può guardare un film anche su un pc, ma si può comunque parlare di cinema.
Il potenziale rivoluzionario che la televisione ha rappresentato per la generazione di Wenders, oggi sembra essere stato ereditato da TikTok. “Impossibile confrontare i due medium” dice Alessandro (@alessandrooritrovato), riflettendo su cosa ti dà TikTok rispetto a un film, e ribadisce che, “a livello culturale, sensoriale e accrescitivo, l’esperienza della visione di un film è insostituibile a qualsiasi altra cosa”. Oggi la visione di un film di formato standard sembra essere ancora considerata un’esperienza valoriale importante, e ancora di più in sala, come afferma Giorgio (@il_grande_cinema_italiano): “Quando posso, cerco sempre di trarre beneficio dall’atmosfera della sala cinematografica”. E Marco (@marcovannu) aggiunge: “La sala cinematografica dovrebbe essere lo standard di visualizzazione del film: oltre a dare un senso si aggregazione è anche il mezzo tramite il quale chi ha realizzato il film vuole che il pubblico lo veda”. Risposta in linea con la visione di Spielberg, che nel documentario si definiva “uno degli ultimi ottimisti” riguardo al cinema in sala.

Tuttavia, con l’idea che un film sia “troppo impegnativo”, ci perdiamo per ore e ore su Instagram, TikTok o YouTube, passando bulimicamente da un contenuto all’altro senza soluzione di continuità e, spesso, senza soffermarci per davvero su nessuno, e negandoci quindi l’opportunità di capire o imparare. In tutto quel tempo “potremmo benissimo guardare un lungometraggio”, sottolinea Gianluca (@flussi_cinefili). La differenza, secondo Daniele (@cinema.art.life), è che i video brevi riescono a mantenere sempre alta l’attenzione e si presentano come un impegno dalla durata flessibile, che può andare dai 5 ai 60”. Non è infatti un caso che, dal 2022, il Festival di Cannes abbia aperto la sezione competitiva #TikTokshortfilm, dedicata a cortometraggi dai 30 secondi ai 3 minuti realizzati tramite la piattaforma, con l’intento di riconoscere le potenzialità e la rilevanza del social media, piuttosto che negare, censurare o boicottare qualcosa la cui ascesa è ormai irreversibile.
Wenders pronosticava la morte del linguaggio cinematografico, ma le cose sembrerebbero più complesse di così. Si va meno al cinema, è vero, ma non si producono meno film, a riprova del fatto che il medium e il linguaggio sono ancora vivi. Se il cambiamento che il cinema sta attraversando ha comportato un mutamento tale da non essere più considerabile cinema, forse, invece che sancire la morte del cinema, si potrebbe riflettere su come espandere la concezione di cinema stesso, ampliandone le potenzialità e rendendone fluidi i confini.
Alberto Drago











