“Chambre 666” aveva previsto la morte del cinema, ma non aveva previsto la nascita di TikTok

Nel 1982 a Cannes un gruppo di registi e registe entra nella stanza 666 dell’hotel Martinez e ciascuno si posiziona su una sedia di fronte a una cinepresa posta davanti a una televisione, che a piacere può essere accesa o spenta. Cinema vs TV. In mezzo, il regista, colui che è in grado di scegliere da che parte stare e che maneggia il linguaggio audiovisivo. Davanti al lui, un foglio con una serie di domande sul cinema. Wim Wenders struttura così Chambre 666, che non è solo un documentario sul cinema, ma uno dei primi momenti in cui si infuoca il dibattito sullo stato del cinema. È possibile considerare il cinema lo stesso di una volta? Il cinema è ancora vivo? La televisione ha preso il sopravvento? Queste sono alcune delle domande a cui Spielberg, Antonioni e Wenders stesso, insieme a tanti altri registi, cercano di trovare risposta nel documentario. Domande più che attuali. Con l’avvento di internet e dei social media, si è riaperto questo stesso dibattito, ma le risposte sarebbero radicalmente diverse.

Chambre 666 si interroga sul linguaggio del medium e sul suo cambiamento provocato dalle innovazioni tecnologiche. Significativo è un commento di Michelangelo Antonioni: “Avremo il cinema in casa. Non avremo neanche più bisogno delle sale cinematografiche. Tutte le strutture oggi esistenti dovranno cadere e non sarà facile, né sarà una cosa breve. Però, probabilmente, tutta questa trasformazione, tutti questi mutamenti avverranno, e noi non potremo farci niente, ci resterà soltanto una cosa da fare ed è quella di adattarsi”. Antonioni riassume così lo stato del cinema negli anni ’80: un medium, un linguaggio che è inevitabilmente destinato a cambiare. Ma il cinema è sempre lo stesso, ciò che muta è il modo in cui noi interagiamo col cinema e come ne fruiamo.

Oggi le sale cinematografiche stanno attraversando una fase di profonda e forse irreversibile crisi, ma siamo noi a non averne più bisogno, perché, come diceva Antonioni, “tutte le strutture dovranno cadere”. E che conseguenze linguistiche e creative comporta questo slittamento? A innescare questo primo cambiamento, che ha provocato i successivi, è stato l’avvento del digitale e, in seguito, dei social media. Di conseguenza, il medium cinematografico è traslato e si è evoluto, secondo un fenomeno che si definisce rilocazione: può cambiare il dispositivo, ovvero si può guardare un film anche su un pc, ma si può comunque parlare di cinema.

Il potenziale rivoluzionario che la televisione ha rappresentato per la generazione di Wenders, oggi sembra essere stato ereditato da TikTok. “Impossibile confrontare i due medium” dice Alessandro (@alessandrooritrovato), riflettendo su cosa ti dà TikTok rispetto a un film, e ribadisce che, “a livello culturale, sensoriale e accrescitivo, l’esperienza della visione di un film è insostituibile a qualsiasi altra cosa”. Oggi la visione di un film di formato standard sembra essere ancora considerata un’esperienza valoriale importante, e ancora di più in sala, come afferma Giorgio (@il_grande_cinema_italiano): “Quando posso, cerco sempre di trarre beneficio dall’atmosfera della sala cinematografica”. E Marco (@marcovannu) aggiunge: “La sala cinematografica dovrebbe essere lo standard di visualizzazione del film: oltre a dare un senso si aggregazione è anche il mezzo tramite il quale chi ha realizzato il film vuole che il pubblico lo veda”. Risposta in linea con la visione di Spielberg, che nel documentario si definiva “uno degli ultimi ottimisti” riguardo al cinema in sala.

Tuttavia, con l’idea che un film sia “troppo impegnativo”, ci perdiamo per ore e ore su Instagram, TikTok o YouTube, passando bulimicamente da un contenuto all’altro senza soluzione di continuità e, spesso, senza soffermarci per davvero su nessuno, e negandoci quindi l’opportunità di capire o imparare. In tutto quel tempo “potremmo benissimo guardare un lungometraggio”, sottolinea Gianluca (@flussi_cinefili). La differenza, secondo Daniele (@cinema.art.life), è che i video brevi riescono a mantenere sempre alta l’attenzione e si presentano come un impegno dalla durata flessibile, che può andare dai 5 ai 60”. Non è infatti un caso che, dal 2022, il Festival di Cannes abbia aperto la sezione competitiva #TikTokshortfilm, dedicata a cortometraggi dai 30 secondi ai 3 minuti realizzati tramite la piattaforma, con l’intento di riconoscere le potenzialità e la rilevanza del social media, piuttosto che negare, censurare o boicottare qualcosa la cui ascesa è ormai irreversibile.

Wenders pronosticava la morte del linguaggio cinematografico, ma le cose sembrerebbero più complesse di così. Si va meno al cinema, è vero, ma non si producono meno film, a riprova del fatto che il medium e il linguaggio sono ancora vivi. Se il cambiamento che il cinema sta attraversando ha comportato un mutamento tale da non essere più considerabile cinema, forse, invece che sancire la morte del cinema, si potrebbe riflettere su come espandere la concezione di cinema stesso, ampliandone le potenzialità e rendendone fluidi i confini.

Alberto Drago

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Locarno78: il cinema è (ancora) uno strumento di catarsi collettiva

I film festival sono quei momenti in cui ci ricordiamo perché il cinema resta ancora, o almeno ci prova, un rito collettivo, un gathering culturale che ci strappa dalla corrente del solipsismo culturale verso cui stiamo andando alla deriva. Un’esperienza di identificazione personale profonda che parte nel buio della sala e che, nel momento in cui termina, ci porta a cercare uno sguardo di intesa, soddisfatto o deluso, con chi l’ha condivisa con noi, come a rispondere a un innato bisogno di riconoscimento e connessione verso l’esterno. E anche se dobbiamo correre forsennatamente verso la prossima proiezione, quel senso di avere a priori qualcosa in comune con chi abbiamo attorno ci fa sentire di essere parte di qualcosa – dovremmo smettere di dimenticarcelo.


Locarno78 ha dato particolare spazio alle riflessioni su questo tema, creando uno spazio di confronto e negoziazione per il cinema contemporaneo, con una selezione che punta su politica e fragilità, sangue e poesia, ironia e dolore, corpi ribelli, silenzi che gridano, vampiri e bambine, ritagli di quotidianità, mondi sospesi tra sogno e realtà, ricordi intimi e futuri distopici. Qui il cinema non si limita a intrattenere: interroga il presente, disturba e commuove, fa ridere fuori luogo e ti costringe a guardare dove distogli lo sguardo. In un momento storico di frenetica ricerca della distrazione, del dramma annichilente, del terrore di fermarsi e vedere per davvero le cose per ciò che sono, Locarno mette al centro quelle voci ai margini, le visioni scomode e i linguaggi radicali. Come ha dimostrato la manifestazione pacifica in Piazza Grande per fermare il genocidio palestinese in corso, il cinema è vivo e lotta insieme a noi, per innescare una forma di guarigione condivisa.

Memory Box, Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, Libano/Canada/Francia/Qatar, 2021

La scatola dei ricordi che si apre in Memory Box non contiene soltanto fotografie, cassette, lettere: custodisce identità sospese, frammenti di un passato che non smette di pulsare, la tensione costante tra ciò che si tramanda e ciò che si perde. È un film che scava nel gesto stesso del ricordare e del raccontare, e che ci ricorda come la memoria non sia mai neutrale, ma un territorio di conflitto e negoziazione. La sala diventa allora un archivio condiviso, in cui la storia privata si intreccia con la Storia collettiva e la memoria si fa atto collettivo, soprattutto di ciò che preferiremmo non ricordare. Portando a Locarno78 anche Costa Brava, Lebanon, la casa di produzione indipendente libanese Abbout Production, premiata col Raimondo Rezzonico Award, rivendica così il ruolo del cinema di raccontare storie autentiche, ancorate alla realtà della regione che i due fondatori, Georges Schoucair e Myriam Sassine, abitano, “mostrando ciò che dall’esterno non si vede e offrendo visioni alternative, spesso antitetiche rispetto a quelle dei media, ormai deformate dalla censura e dalla manipolazione politica” – come ha dichiarato Myriam a Pardo Magazine.

With Hasan in Gaza, Kamal Aljafari, Palestina/Germania/Francia/Qatar, 2025

“Un omaggio a Gaza e al suo popolo, a tutto ciò che è stato cancellato e che dentro di me si è risvegliato in questo momento drammatico dell’esistenza, o non-esistenza, della Palestina. Un film sulla catastrofe e sulla poesia che resiste”, afferma il regista. Un film che non offre soluzioni né consolazioni, ma accoglie e dà dignità a vite sospese tra paura e resistenza, tra memoria e quotidianità, alla fragilità di chi vive sotto minaccia e alla forza di chi non rinuncia a raccontarsi. Il rito collettivo nella sala cinematografica si fa atto di consapevolezza e vicinanza, un antidoto alla corrente del presente che ci trascina nell’indifferenza.

Alpha, Julia Ducournau, Francia/Belgio, 2025

Il futuro che racconta Alpha non è lontano, è già qui: un corpo adolescente marchiato da un virus si fa terreno di paura, sospetto, stigma. Dopo Titane, Julia Ducournau torna con un body horror per metterci di fronte al presente che viviamo: quello che trasforma l’altro in minaccia, il diverso in contagio. La forza del film sta proprio nel rifiuto di chiudersi nella distopia facile: Alpha usa il genere per scavare nella fragilità, per mostrare come l’innocenza possa diventare specchio crudele del nostro bisogno di controllo e di come la paura generi mostruosità disumane. È cinema che costringe a uno sguardo collettivo, in cui l’individuo è un pezzo di un mosaico di cui non possiamo più non avere consapevolezza. 

Silence, Eduardo Casanova, Spagna, 2025

Eduardo Casanova torna a sfidare le convenzioni eterocis del genere horror, esplorando le difficoltà di connessione in una società sempre più alienata attraverso la storia di una famiglia di vampire e una love story lesbica finalmente spogliata di quel velo oggettificante che viene spesso calato sopra (dall’alto del patriarcato). Con un linguaggio squisitamente e sfacciatamente queer, un’estetica viscerale e simbolica, una narrazione stratificata e dolce e gag sagaci e divertenti, al centro c’è il corpo come veicolo per raccontare storie di emarginazione e desiderio. smascherare il vero veleno della società di oggi: il silenzio. 

Dracula, Radu Jude, Romania/Austria/Lussemburgo/Brasile, 2025 

Torna il mito del vampiro, ma non si tratta di nostalgia gotica: quello di Jude è un corpo politico, radicale, anarchico. Realizzato con un uso massiccio e dichiarato, al limite del posticcio, dell’AI, il film “decostruisce il mito di Dracula attraverso decine di storie – assurde, pulp, letterarie, giocose, politiche, eccessive, cattive, fantastiche e realistiche”, dichiara il regista, con un’opera che è un’ode irriverente al grottesco. Ogni vampiro che appare sullo schermo ci ricorda che i veri mostri sono altrove, e sono ben celati, e che il cinema sa ancora usare il mito per smascherare il presente e innescare una catarsi collettiva: le ombre dell’umano, quando condivise, fanno meno paura.

Le bambine, Valentina Bertani, Nicole Bertani, Italia/Svizzera/Francia, 2025

Un racconto autobiografico in bilico tra realtà e finzione che parla di figlie che hanno cercato la libertà attraverso la sorellanza. Il film, consapevolmente anti-naturalistico, è lo sguardo delle bambine che Nicole e Valentina erano, non quello delle donne che siamo diventate. Ruoli familiari e affettività negata scorrono sullo sfondo di un’estate italiana di fine anni ’90, tra tormentoni in radio e discoteche oggi abbandonate (nota bene: la meravigliosa scena plastica da Cocoricò) dove gabber e warrior facevano tremare i pavimenti a colpi di hakken. Pane per i denti affamati di retromania autentica – non di puro citazionismo – e di un coming of age che mette al centro corpi (finalmente) femminili che si fanno campo di negoziazione di un passaggio che non ha un prima e un dopo ma che si configura come attraverso liminale, legittimando la transizione come stato in sé. “Menarca, sessualità, responsabilità: nel film non sono mai universali; le identità sono fluide, si sfiorano, si confondono. Ed è proprio in queste zone grigie che si annida la verità”, dichiarano le registe.

Fantasy, Kukla, Slovenia/Macedonia del Nord, 2025

Fantasia non come evasione ma lente altra attraverso cui leggere il presente, per un “risveglio dello sguardo femminile, a lungo represso”, e invitare le donne “a vedersi attraverso i propri occhi, anziché attraverso le aspettative altrui”, spiega la regista. Il film mescola ironia e dolore, leggerezza e inquietudine, creando uno spazio in cui il ridicolo e il tragico convivono nella storia di Mihrije, Sina e Jasna, amiche del cuore i cui corpi tomboy che rifiutano di piegarsi al sistema retrivo in cui vivono vengono sconvolti – in positivo – dall’incontro con Fantasy, donna transgender insieme alla quale partono per un viaggio nelle complessità dei generi, del desiderio e della scoperta di sé.

White Snail, Elsa Kremser e Levin Peter, Austria/Germania, 2025

La lumaca si muove lenta, quasi impercettibile, eppure lascia una scia luminosa dietro di sé. Così White Snail: un film che non solo si vede, ma si sente. Non esplode, non urla: scava con un sottotono di dolcezza per plasmare una storia di amore e di solitudine, di corpi che sfuggono e di vite che si rispecchiano. Il fil rouge del film è proprio il bisogno di sentirsi compresi e il riappropriarsi dell’etichetta di outsider come atto politico di resistenza contro un sistema autocratico (in questo caso della Bielorussia) sottoposto a un rigido controllo statale che rigetta tutto ciò che esula dalla norma – che siano corpi, idee, arte.

Ancestral Visions of the Future, Lemohang Mosese, Francia/Lesotho/Germania/Arabia Saudita/Qatar, 2025

Un titolo che sembra un ossimoro e invece è dichiarazione di intenti: il futuro non esiste senza la voce degli antenati, e prende forma proprio in quello spazio sospeso dove ritualità e memoria si intrecciano. In un tempo che non è lineare ma circolare, che ritorna e si rigenera, e con un’estetica saturatissima, Ancestral Visions of the Future mette in discussione l’idea stessa di progresso, chiedendo di ricordarci di ricordare, di guardare a ciò che abbiamo dimenticato e, in qualche modo, di integrarlo, per immaginare insieme futuri che, per quanto fragili e incerti, hanno radici comuni.

Bonus tip cortometraggi

L’Avant-Poste 21 di Camille Surdez (Svizzera, 2025)

Bleifrei 95 di Emma Hütt e Tina Muffler (Austria/Germania, 2025)

RANDAGHI di Enrico Motti ed Emanuele Motti (Italia, 2025)

Yo Yo di Mohammadreza Mayghani (Iran/Francia, 2025)

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Locarno78: il cinema è (ancora) uno strumento di catarsi collettiva

I film festival sono quei momenti in cui ci ricordiamo perché il cinema resta ancora, o almeno ci prova, un rito collettivo, un gathering culturale che ci strappa dalla corrente del solipsismo culturale verso cui stiamo andando alla deriva. Un’esperienza di identificazione personale profonda che parte nel buio della sala e che, nel momento in cui termina, ci porta a cercare uno sguardo di intesa, soddisfatto o deluso, con chi l’ha condivisa con noi, come a rispondere a un innato bisogno di riconoscimento e connessione verso l’esterno. E anche se dobbiamo correre forsennatamente verso la prossima proiezione, quel senso di avere a priori qualcosa in comune con chi abbiamo attorno ci fa sentire di essere parte di qualcosa – dovremmo smettere di dimenticarcelo.


Locarno78 ha dato particolare spazio alle riflessioni su questo tema, creando uno spazio di confronto e negoziazione per il cinema contemporaneo, con una selezione che punta su politica e fragilità, sangue e poesia, ironia e dolore, corpi ribelli, silenzi che gridano, vampiri e bambine, ritagli di quotidianità, mondi sospesi tra sogno e realtà, ricordi intimi e futuri distopici. Qui il cinema non si limita a intrattenere: interroga il presente, disturba e commuove, fa ridere fuori luogo e ti costringe a guardare dove distogli lo sguardo. In un momento storico di frenetica ricerca della distrazione, del dramma annichilente, del terrore di fermarsi e vedere per davvero le cose per ciò che sono, Locarno mette al centro quelle voci ai margini, le visioni scomode e i linguaggi radicali. Come ha dimostrato la manifestazione pacifica in Piazza Grande per fermare il genocidio palestinese in corso, il cinema è vivo e lotta insieme a noi, per innescare una forma di guarigione condivisa.

Memory Box, Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, Libano/Canada/Francia/Qatar, 2021

La scatola dei ricordi che si apre in Memory Box non contiene soltanto fotografie, cassette, lettere: custodisce identità sospese, frammenti di un passato che non smette di pulsare, la tensione costante tra ciò che si tramanda e ciò che si perde. È un film che scava nel gesto stesso del ricordare e del raccontare, e che ci ricorda come la memoria non sia mai neutrale, ma un territorio di conflitto e negoziazione. La sala diventa allora un archivio condiviso, in cui la storia privata si intreccia con la Storia collettiva e la memoria si fa atto collettivo, soprattutto di ciò che preferiremmo non ricordare. Portando a Locarno78 anche Costa Brava, Lebanon, la casa di produzione indipendente libanese Abbout Production, premiata col Raimondo Rezzonico Award, rivendica così il ruolo del cinema di raccontare storie autentiche, ancorate alla realtà della regione che i due fondatori, Georges Schoucair e Myriam Sassine, abitano, “mostrando ciò che dall’esterno non si vede e offrendo visioni alternative, spesso antitetiche rispetto a quelle dei media, ormai deformate dalla censura e dalla manipolazione politica” – come ha dichiarato Myriam a Pardo Magazine.

With Hasan in Gaza, Kamal Aljafari, Palestina/Germania/Francia/Qatar, 2025

“Un omaggio a Gaza e al suo popolo, a tutto ciò che è stato cancellato e che dentro di me si è risvegliato in questo momento drammatico dell’esistenza, o non-esistenza, della Palestina. Un film sulla catastrofe e sulla poesia che resiste”, afferma il regista. Un film che non offre soluzioni né consolazioni, ma accoglie e dà dignità a vite sospese tra paura e resistenza, tra memoria e quotidianità, alla fragilità di chi vive sotto minaccia e alla forza di chi non rinuncia a raccontarsi. Il rito collettivo nella sala cinematografica si fa atto di consapevolezza e vicinanza, un antidoto alla corrente del presente che ci trascina nell’indifferenza.

Alpha, Julia Ducournau, Francia/Belgio, 2025

Il futuro che racconta Alpha non è lontano, è già qui: un corpo adolescente marchiato da un virus si fa terreno di paura, sospetto, stigma. Dopo Titane, Julia Ducournau torna con un body horror per metterci di fronte al presente che viviamo: quello che trasforma l’altro in minaccia, il diverso in contagio. La forza del film sta proprio nel rifiuto di chiudersi nella distopia facile: Alpha usa il genere per scavare nella fragilità, per mostrare come l’innocenza possa diventare specchio crudele del nostro bisogno di controllo e di come la paura generi mostruosità disumane. È cinema che costringe a uno sguardo collettivo, in cui l’individuo è un pezzo di un mosaico di cui non possiamo più non avere consapevolezza. 

Silence, Eduardo Casanova, Spagna, 2025

Eduardo Casanova torna a sfidare le convenzioni eterocis del genere horror, esplorando le difficoltà di connessione in una società sempre più alienata attraverso la storia di una famiglia di vampire e una love story lesbica finalmente spogliata di quel velo oggettificante che viene spesso calato sopra (dall’alto del patriarcato). Con un linguaggio squisitamente e sfacciatamente queer, un’estetica viscerale e simbolica, una narrazione stratificata e dolce e gag sagaci e divertenti, al centro c’è il corpo come veicolo per raccontare storie di emarginazione e desiderio. smascherare il vero veleno della società di oggi: il silenzio. 

Dracula, Radu Jude, Romania/Austria/Lussemburgo/Brasile, 2025 

Torna il mito del vampiro, ma non si tratta di nostalgia gotica: quello di Jude è un corpo politico, radicale, anarchico. Realizzato con un uso massiccio e dichiarato, al limite del posticcio, dell’AI, il film “decostruisce il mito di Dracula attraverso decine di storie – assurde, pulp, letterarie, giocose, politiche, eccessive, cattive, fantastiche e realistiche”, dichiara il regista, con un’opera che è un’ode irriverente al grottesco. Ogni vampiro che appare sullo schermo ci ricorda che i veri mostri sono altrove, e sono ben celati, e che il cinema sa ancora usare il mito per smascherare il presente e innescare una catarsi collettiva: le ombre dell’umano, quando condivise, fanno meno paura.

Le bambine, Valentina Bertani, Nicole Bertani, Italia/Svizzera/Francia, 2025

Un racconto autobiografico in bilico tra realtà e finzione che parla di figlie che hanno cercato la libertà attraverso la sorellanza. Il film, consapevolmente anti-naturalistico, è lo sguardo delle bambine che Nicole e Valentina erano, non quello delle donne che siamo diventate. Ruoli familiari e affettività negata scorrono sullo sfondo di un’estate italiana di fine anni ’90, tra tormentoni in radio e discoteche oggi abbandonate (nota bene: la meravigliosa scena plastica da Cocoricò) dove gabber e warrior facevano tremare i pavimenti a colpi di hakken. Pane per i denti affamati di retromania autentica – non di puro citazionismo – e di un coming of age che mette al centro corpi (finalmente) femminili che si fanno campo di negoziazione di un passaggio che non ha un prima e un dopo ma che si configura come attraverso liminale, legittimando la transizione come stato in sé. “Menarca, sessualità, responsabilità: nel film non sono mai universali; le identità sono fluide, si sfiorano, si confondono. Ed è proprio in queste zone grigie che si annida la verità”, dichiarano le registe.

Fantasy, Kukla, Slovenia/Macedonia del Nord, 2025

Fantasia non come evasione ma lente altra attraverso cui leggere il presente, per un “risveglio dello sguardo femminile, a lungo represso”, e invitare le donne “a vedersi attraverso i propri occhi, anziché attraverso le aspettative altrui”, spiega la regista. Il film mescola ironia e dolore, leggerezza e inquietudine, creando uno spazio in cui il ridicolo e il tragico convivono nella storia di Mihrije, Sina e Jasna, amiche del cuore i cui corpi tomboy che rifiutano di piegarsi al sistema retrivo in cui vivono vengono sconvolti – in positivo – dall’incontro con Fantasy, donna transgender insieme alla quale partono per un viaggio nelle complessità dei generi, del desiderio e della scoperta di sé.

White Snail, Elsa Kremser e Levin Peter, Austria/Germania, 2025

La lumaca si muove lenta, quasi impercettibile, eppure lascia una scia luminosa dietro di sé. Così White Snail: un film che non solo si vede, ma si sente. Non esplode, non urla: scava con un sottotono di dolcezza per plasmare una storia di amore e di solitudine, di corpi che sfuggono e di vite che si rispecchiano. Il fil rouge del film è proprio il bisogno di sentirsi compresi e il riappropriarsi dell’etichetta di outsider come atto politico di resistenza contro un sistema autocratico (in questo caso della Bielorussia) sottoposto a un rigido controllo statale che rigetta tutto ciò che esula dalla norma – che siano corpi, idee, arte.

Ancestral Visions of the Future, Lemohang Mosese, Francia/Lesotho/Germania/Arabia Saudita/Qatar, 2025

Un titolo che sembra un ossimoro e invece è dichiarazione di intenti: il futuro non esiste senza la voce degli antenati, e prende forma proprio in quello spazio sospeso dove ritualità e memoria si intrecciano. In un tempo che non è lineare ma circolare, che ritorna e si rigenera, e con un’estetica saturatissima, Ancestral Visions of the Future mette in discussione l’idea stessa di progresso, chiedendo di ricordarci di ricordare, di guardare a ciò che abbiamo dimenticato e, in qualche modo, di integrarlo, per immaginare insieme futuri che, per quanto fragili e incerti, hanno radici comuni.

Bonus tip cortometraggi

L’Avant-Poste 21 di Camille Surdez (Svizzera, 2025)

Bleifrei 95 di Emma Hütt e Tina Muffler (Austria/Germania, 2025)

RANDAGHI di Enrico Motti ed Emanuele Motti (Italia, 2025)

Yo Yo di Mohammadreza Mayghani (Iran/Francia, 2025)

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2. I dati personali oggetto di trattamento
a. Dati di navigazione
b. Dati forniti volontariamente
c. Cookie e tecnologie affini
3. Finalità, base giuridica e natura obbligatoria o facoltativa del trattamento
4. Destinatari
5. Trasferimenti
6. Conservazione dei dati
7. I tuoi diritti
8. Modifiche

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