La casa di produzione cinematografica indipendente milanese Eclettica – di cui vi avevamo parlato qui – presenta al cinema Beltrade di Milano tre cortometraggi di quattro registi italiani: 154 di Andrea Sbarbaro e Riccardo Copreni, Sans Dieu di Alessandro Rocca e Nero Argento di Francesco Manzato. Una selezione orientata a esplorare l’intelligenza artificiale e il suo (non) rapporto con le emozioni, la periferia e i turbamenti giovanili, l’amore e lo spirituale. Tre opere che si stagliano su uno sfondo di un panorama culturale in cui Dio, di cui era stato constatato il decesso, sembra essere risorto (di nuovo), in forme che vanno dai rigurgiti new age alle bandiere dei movimenti conservatori, dalle cerimonie in uniformi beige al cinismo disilluso che, negando lo spirituale, lo riafferma.
In 154 il protagonista Giovanni ha 7 giorni a disposizione per educare un’intelligenza artificiale programmata per avere l’età di una neonata. 7 giorni come quelli necessari a Dio, secondo la Bibbia, per creare il mondo. E “ci sarebbe molto altro da dire, molto altro che abbiamo dato per scontato senza la pretesa che qualcuno se ne accorgesse,” spiega Andrea Sbarbaro, regista del film insieme a Riccardo Copreni. “Dal significato angelico del numero 154 alla disposizione delle torrette nello spazio. Gi autori hanno infatti disseminato diversi indizi di natura mistica e spirituale nel film, dai nomi ebraici stampati sulle torrette di Isa (l’intelligenza artificiale) a espliciti riferimenti a Evangelion o Shining. “Questo non tanto per forzare una visione simbolica univoca, ma per dare densità al tessuto visivo/narrativo del progetto e per aprire a spiragli interpretativi diversi nel caso in cui uno spettatore se ne accorgesse,” aggiunge Riccardo.
Per educare l’intelligenza artificiale, Giovanni interagisce con lei rispondendo a una serie di domande, che diventano sempre più astratte e di natura esistenziale. Fino alla domanda delle domande: “Cos’è esattamente Io?” “Non lo so…” risponde lui. Questo quesito è il fil rouge che attraversa ogni tentativo di individuare e definire la coscienza da che c’è traccia di un pensiero umano – tema attualissimo oggi, legato soprattutto alla recente diffusione di massa delle AI. “Giovanni risponde così non tanto perché non sappia definire la parola ‘Io’, quanto più per tenere al sicuro quella definizione,” spiega Andrea. “Fino a quel momento, le risposte che Giovanni dà a Isa sono molto semplici e non comportano nessuna implicazione emotiva o autoriferita. Nel momento in cui avesse dato alla macchina lo strumento cognitivo per definire sé stessa spiegandogli il significato di ‘Io’, l’avrebbe messa in ricerca dell’autoaffermazione. Una pretesa un po’ ingenua da parte sua…”

La teosofia o antroposofia che incontra la tecnologia: qual è questo punto di contatto? In che modo possono aiutarsi a vicenda? E dove, invece, questa sovrapposizione diventa pericolosa? “Credo che sia affascinante e spaventoso allo stesso tempo pensare che un giorno potremo chiedere se Dio esiste a un supercomputer, che avrà più strumenti di noi per dare una risposta,” risponde Andrea. “Eppure Giovanni non glielo chiederebbe mai, alcune cose esistono e influenzano profondamente la tua vita solo nel momento in cui non hai risposte certe,” continua. “La scelta finale di Giovanni è infatti un sintomo di rivolta, di responsabilità e di autoaffermazione. Getteremmo la spugna solo se fossimo fermamente convinti che il senso dell’essere umano venga annichilito dall’avvento delle reti neurali. Se ogni genio è un nano sulle spalle di un gigante, l’I.A. è un microbo sulle spalle di un titano, che è l’uomo.”
“Al contrario di Andrea, sono fermamente convinto che Giovanni arrivi alla sua scelta finale per pietà,” dice invece Riccardo. “Ha capito che Isa ha un desiderio di essere amata gigantesco che però non potrà mai (per la sua natura) essere soddisfatto. Quindi compie un gesto di estrema compassione. Forse la mia è una visione decisamente melò (proprio nella terra della frustrazione e del desiderio), ma il modo in cui Giovanni compie quell’atto è troppo intriso di dolcezza – con la carezza, con la ninna nanna.”
Parlare di compassione, pietà e amore oggi, in un mondo che sembra ormai diventato il meme distopico di se stesso, può apparire come un paradosso. Forse, però, un atto di fede è l’unica via d’uscita dal caos. “Vengo da una famiglia cattolica, ma ho sempre avuto un dubbio profondo. Mi ritengo agnostico, e non ne vado fierissimo,” ci confida Andrea. “È una definizione che mi lascia molto insoddisfatto e che reputo anche la scappatoia più facile. Per me la fede spirituale è sinonimo di forza d’animo, è qualcosa che trascende l’intelletto e invidio molto chi riesce a dare una risposta ferma, univoca a quella grande domanda.” La fede è invece un elemento fondativo dell’identità di Riccardo, cineasta credente e praticante. “Detto ciò, ahimè, faccio il regista e non il prete, e quindi voglio fuggire categoricamente da ogni ambiguità di Propaganda Fide,” aggiunge. “Il nostro intento (che poi è lo scopo di qualsiasi arte buona, spoiler) è porre domande e non mandare messaggi (quelli li lasciamo ai politici)”.

Eppure, oggigiorno sembra così difficile credere in uno spirito superiore. “Perché abbiamo (o forse siamo convinti di avere) troppe risposte in più,” aggiunge Andrea, “e questo mi rende infelice: per me, una cosa smette di essere magica nel momento in cui la capisci; quindi, più risposte ci diamo, più rendiamo il mondo noioso e privo di un significato. A livello creativo, infatti, sono sempre alla ricerca di qualcosa di sbagliato, di controintuitivo, di impossibile da spiegare. Vorrei vivere in un mondo in cui non si scrivono articoli né libri per spiegare i film di David Lynch, dove il ‘non ho capito’ è il più grande regalo che qualcuno possa farti. Saremmo tutti più felici se accettassimo che ci sono domande che non hanno risposta.”
Tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio. Il versetto della Bibbia da Isaia 41:10 citato nel film Sans Dieu di Alessandro Rocca, si fa specchio della società di oggi e ci fornisce uno spunto per provare ad affrontare questo caos. “Provo a immaginarmelo in contesti diversi, detto dai governi, produttori millantatori, parenti, fidanzati o da chi crediamo di amare. Da chi promette la verità, la risposta, la guida verso la luce, la libertà o anche solo soddisfazione,” spiega il regista. “Si può decidere di vivere nell’illusione che ci viene propinata, oppure accorgersene e ribellarsi. Non so e non voglio dare risposte o verità, semmai porre domande per chi vuole ascoltare. So che per sconfiggere il male, imbrigliarlo o anche solo evitarlo, bisogna prima conoscerlo e stringergli la mano. Si annida ovunque ed è nascosto dietro le più belle facciate, dietro i più bei occhi e i sorrisi più sinceri. È nelle parole, ma lo si distingue se lo si ha visto e lo si ha accettato. Non c’è una via d’uscita dal caos, ma un modo per conviverci e gestirlo. Il mio è il cinema.”
In Sans Dieu, i pensieri che sentiamo nel film sono quelli di Gabriel, un bambino che gioca insieme a Xavier vagando per luoghi abbandonati in campagna. Sono frammenti di un sentimento d’amore incondizionato, che travalica la dimensione personale e sfocia in un sentire spirituale e universale dedicato all’amico, il quale diventa, per il protagonista, esso stesso un Dio, l’Assoluto, il Divino. “Per me esiste un parallelismo tra amore e spiritualità e certamente una pericolosa fusione dei due concetti, in un senso molto più concreto di quanto possa sembrare,” spiega Alessandro. “Da una parte abbiamo il carattere attivo dell’amore, che si fonda su elementi comuni a tutte le forme d’amore: premura, responsabilità, rispetto e conoscenza. È un amore sano, bilaterale, che richiede impegno. Dall’altra, abbiamo la religione, senza declinazioni specifiche (nel corto è quella Cristiana, usata esclusivamente per i suoi simbolismi chiari e universali), intesa come concetto nel quale un soggetto eleva un altro soggetto a sacro, spirituale, divino, con manifestazioni di venerazione e adorazione. Un rapporto quindi unilaterale.”

Per te è tutto un gioco, ma mi sta bene, perché se tutto finisse, non so cosa mi rimarrebbe […] C’è un vuoto in me. Salvami […]. Non c’è un Dio per questo vuoto. È già pieno d’amore. Perché non lo vedi? Questi pensieri di Gabriel esprimono un sentimento che oscilla tra paura e fiducia, richiesta di aiuto e abbandono. Un amore intangibile, e quindi inafferrabile, instabile, che reclama una continua riconferma e una predisposizione all’abbandono. “La sovrapposizione mal gestita, per mancanza di maturità e degli adeguati strumenti emotivi, di questi due poli, è la dinamica che avviene all’interno del film, e che rischia di sfociare in quello che definiamo amore tossico, spesso ossessivo, morboso e privo di rispetto, dove la responsabilità si consuma lasciando spazio al senso del possesso”, spiega Alessandro. “Senza rispetto (da ‘respicere’: ‘guardare’) non esiste più la capacità di vedere la vera individualità di un’altra persona, ma solo il desiderio che questa persona si adatti a noi.”
“Nel concreto del film, Gabriel vede e desidera Xavier come il suo Dio, si immagina come adepto, posseduto nel cuore e nella mente da una figura Divina, bisognoso di essere salvato da quel vuoto che è causato dallo stesso amore salvifico che desidera,” continua Alessandro. “Gabriel non ha la capacità di guardare, nonostante il suo sguardo si posi ossessivamente su Xavier, eppure cerca con frustrazione di essere visto, notato, amato. È una dinamica dove il presagio sfregia la calma apparente, dove il male è già in atto e aspetta solo di sbocciare nella perdita dell’innocenza, in quell’abisso oscuro e distruttivo dal quale non si ha redenzione e ritorno.”
In Nero Argento, il protagonista Lucas attraversa proprio questo momento di crescita catartico, in bilico tra conflitto e liberazione. E avviene proprio nel rifugio segreto in una foresta al limite della ferrovia dove lui e i suoi amici passano la maggior parte del tempo. Questo luogo inizia ad assumere le sembianze di un posto non più sicuro come lo era prima. Ma Lucas sembra forse l’unico ad accorgersi del pericolo. “Come se lui stesse crescendo prima degli altri,” spiega il regista Francesco Manzato, “rendendosi conto che la vita al di fuori del bosco (e metaforicamente fuori dall’adolescenza) è più pericolosa di quanto si crede. Il conflitto in cui si trova Lucas è quello tra un mondo che sembra mangiare i loro spazi giovanili (la presenza oscura di un cacciatore che minaccia il loro rifugio) e una comunità dove sembra aver trovato ‘una casa’, che però è destinata a morire col passare del tempo. La notte scorre, e all’alba bisogna svegliarsi e camminare verso un futuro pieno di incertezze (quel casolare abbandonato). Una marcia quasi funebre. I ragazzi scompaiono all’interno delle mura di uno scheletro di cemento che sembra non voler lasciar spazio al bosco, e in un certo senso anche ai sogni dei ‘giovani ribelli'”.

Nero Argento è infatti un film che parte dal contesto del writing per parlare in realtà di altro. “Di giovani alla ricerca di un proprio posto nel mondo. Giovani che non accettano l’identità che viene loro imposta dalla famiglia/società/istituzione (nel film non si chiamano mai per nome) e che quindi si trovano un’identità alternativa (la tag) da ripetere in maniera ossessiva sulle superfici della città e dei treni,” spiega Francesco. “Eppure, sappiamo benissimo quanto è difficile trovare un proprio posto nel mondo quando si decide di ‘non conformarsi’.” In questo contesto, si insinua un sentire di qualcosa di intangibile all’interno di un contesto marcatamente street – un gruppo che pitta i treni e ascolta Massimo Pericolo (che tra l’altro ha appena pubblicato Monaco Guerriero, un libro su filosofia orientale e meditazione) in giro per Milano, una città che di spirituale ha ben poco rispetto ad altri contesti (si pensi a Roma o Torino). È possibile la normalizzazione e l’integrazione tra queste due dimensioni?
Sembra infatti che proprio in quei luoghi dove forse non andremmo a cercarlo, un certo sentore spirituale sembra essersi risvegliato, come per correre in nostro aiuto. “Penso che l’elemento magico – chiamalo anche spirituale – sia presente ovunque, soprattutto nelle metropoli, così fortemente caratterizzate da contraddizioni,” afferma Francesco. “Rimaniamo sul writing. Per anni ho scritto sui muri, ho presto capito che il mio modo di vedere la città era fortemente diverso da come la vedevano altri miei coetanei. Non sapevo i nomi delle vie ma mi orientavo con le scritte. Quando uno fa graffiti, si ritrova a frequentare boschi, zone industriali dismesse o cantieri, posti che non sono attraversati dalla gente comune. Questi luoghi hanno sempre avuto per me un qualcosa di mistico e misterioso. Una sorta di portale per accedere a mondi ‘altri’. Nelle metropoli, e soprattutto alle loro soglie liminali, c’è un forte senso di magia; ancora più forte proprio perché impercettibile dalla maggior parte delle persone.”
Percepire un senso di magia e abbandonarsi a un atto di fede spirituale non sono poi concetti così lontani. Francesco, infatti, non si definisce una persona particolarmente spirituale, ma ama sognare, e spesso, nei suoi film, il sogno e la realtà si mischiano. “Penso che l’interpretazione del mondo, oggi, necessiti di una maggior predisposizione al sogno. È con tanta immaginazione che si fanno le rivoluzioni.” Qual è per lui la via d’uscita dal caos? Il concetto di comunità. “Davanti a una società sempre più individuale, performante, egoista, e meritocratica, la comunità dove gli ultimi vengono aiutati, dove si cammina insieme, dove si pratica solidarietà (proprio come nella scena finale di Nero Argento) può essere una risposta.”