“Il mio giardino persiano”: islamofobia e resistenza silenziosa in una società che ci giudica

Nel nuovo film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha la protagonista Mahin, una donna iraniana rimasta sola, non riesce a emanciparsi dalla monotonia della propria vita, bloccata nella bolla del piccolo paese in cui abita, dove vicini e compaesani, spinti da quelle che sono le regole non scritte della società dell’Iran, si sentono in diritto di osservare, giudicare e determinare le scelte altrui. Anche se in modo più sottile rispetto al film precedente Ballad of a White Cow (2020), Sanaeeha e Moghaddam tornano a lavorare sullo sfondo dello scenario politico dell’Iran, raccontando le paure e le insicurezze di molte donne iraniane attraverso la storia di Mahin, che timidamente cerca dentro di sé il coraggio e la forza per riappropriarsi della propria vita e capacità di autodeterminazione.


“Devi difenderti: più ti mostri sottomessa, più ti mettono i piedi in testa” sono le parole che Mahin rivolge a un’estranea che si ritroverà a difendere dalla polizia morale perché accusata di non indossare il velo in modo corretto. Con la rivoluzione del 1979, la vita delle donne Iran è completamente cambiata, ridotte a essere considerate una proprietà dell’uomo accanto al quale vivono e private per legge della libertà di compiere anche i gesti più semplici, trasformando diritti basilari (come guidare) in privilegi – come si legge questo articolo. E la scelta di non conformarsi agli standard del regime comporta non solo la paura di essere denunciate, ma anche la preclusione dalla partecipazione ad attività sociali e dalle opportunità lavorative, oltre al pesante e condizionante giudizio morale di conoscenti ed estranei.

il mio giardino persiano iran

Nel ricordare le avventure con le amiche, Mahin divide la sua vita in due momenti: prima e dopo la rivoluzione. Nel “prima”, ricordano insieme momenti felici e spensierati, la leggerezza della giovinezza, le serate estive in cui si incontravano per rubare semi dal parco pubblico da piantare nel proprio giardino – giardino che per la protagonista simboleggerà la ritrovata serenità e che sarà custode di una magica serata. Nel “dopo”, vediamo com’è la quotidianità di una donna iraniana che cerca di essere indipendente, attanagliata dall’angoscia della solitudine, dell’isolamento e della routine. Nella società dell’Iran attuale, c’è davvero spazio per l’emancipazione femminile? Quella che Mahin rincorre nel corso del film è una libertà irraggiungibile? Questione ampia, complessa e a volte divisiva già trattata da Emma Seligman nel suo film d’esordio Shiva Baby, in cui, però, la protagonista è ancora una volta una giovane donna. Ne Il mio giardino persiano, invece, Mahin si fa portavoce non solo delle donne iraniane, ma anche e soprattutto di quelle considerate ormai “troppo anziane” per rivendicare la propria esistenza.


Dal film emerge l’esigenza di destrutturare i bias narrativi convenzionalmente imposti dalla società, e a farlo è proprio Mahin, che si arma di coraggio e prende l’iniziativa invitando gentilmente il tassista Faramarz a passare la serata a casa sua – gesto che molte persone, uomini e donne, introiettando una visione maschilista e patriarcale, considererebbero troppo pericolosa, inopportuna e sconsiderata. I due, invece, si ritrovano a condividere un momento di intimità genuino e autentico, si confidano e si scoprono simili nella volontà di sconfiggere la monotonia e le regole del regime, e passano la serata sorseggiando bevande proibite in Iran e ballando insieme con la ritrovata leggerezza di due adolescenti innamorati. “Nessuno mi vede più”, dice Faramarz alla sua nuova amica, confessando il dolore provocato dalla sensazione di non avere qualcuno che si prende cura e preoccupa per noi; ed è esattamente questo che i due cercano e ritrovano, anche se per poco, l’uno nell’altro.

il mio giardino persiano iran

Allo stesso tempo, il film smonta i pregiudizi sempre più diffusi sulla religione islamica, tacciandola di misoginia e maschilismo. Questo articolo, infatti, spiega come, secondo il Corano e la Sunnah, uomini e donne sono considerati di assoluta uguaglianza davanti a Dio e nella vita terrena. Non è dunque la religione in sé a considerare la donna subordinata all’uomo, ma la matrice patriarcale della società (da cui non è esente il mondo occidentale). Sono molte, infatti, le voci di chi lotta per raccontare la realtà dell’Islam, diversa da quella narrata dai mass media eurocentrici, come quella di Aya Mohamed, che si racconta in questa intervista rilasciata a VICE, e l’attivista Sveva Basirah Balzini – fondatrice di Sono l’unica mia, progetto con cui offre aiuto alle vittime di violenza e sostiene la comunità LGBTIQ+ di cui lei stessa fa parte. Sveva, in questo articolo, racconta dell’emozione che ha provato leggendo il corano per la prima volta, dell’accoglienza e dell’empatia trovate nella comunità islamica, ma anche dell’emarginazione dei compagni dopo la scelta della conversione e l’incomprensione da parte dei genitori.


“Traumi religiosi e abusi spirituali segnano la nostra quotidianità e la nostra storia, in luoghi fisici e virtuali ormai irrigiditi dall’islamofobia locale. In Italia non è contemplata la semplice esistenza del femminismo islamico e dellə femministə islamichə, queer, questioning e di identità di persone musulmane disabili, neurodivergenti e divergenti in generale da ogni comodo riassunto di identità musulmane e razzializzate. Per noi l’Islam è una religione rivoluzionaria di cui le persone alle origini avevano bisogno, che non può quindi esistere senza la necessità di rivoluzione.” afferma Sveva per introdurre la genesi della Moschea Al Kawhtar, “un modo di condividere la nostra fede liberamente ispirandoci ai nostri ideali di partenza e aprendoci alle novità, La Moschea Al Kawhtar si avvicina alla moschea che vorremmo. Un luogo online di non giudizio, di accoglienza e in cui poterci abbandonare e persino pensare, per un attimo, che la teologia di liberazione sia la normalità.”

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

“Queer”: tra le crepe del desiderio e dell’identità

A distanza di qualche settimana dall’uscita di Queer di Luca Guadagnino, film discusso e divisivo, tentiamo un’analisi a freddo di un’opera che mette a nudo il lato oscuro del desiderio, l’ambiguità dei legami, la disfunzionalità emotiva di chi cerca un posto nel mondo e dentro di sé.

In uno scenario postbellico in un’epoca in cui l’omosessualità è un reato da occultare e da espiare, Città del Messico degli anni Cinquanta non si limita a essere un luogo esotico: è un rifugio, un angolo del mondo in cui può trovare rifugio chi non si sente accettato negli Stati Uniti, ormai minati da una società sempre più chiusa e normata, cercando di scomparire o cominciare una nuova vita. Ed è proprio quello che fa Daniel Craig nei panni di William Lee, il protagonista del film, che tenta di scappare non solo da un paese, ma da se stesso, dai suoi fantasmi e dal suo dolore. Non riesce a sfuggire però all’amore, quello per Eugene Allerton (Drew Starkey) giovane ex-militare, bello e inaccessibile. Un desiderio che si trasforma presto in fissazione. Quando si valica quel confine sottile tra amore e ossessione, si perde il controllo. Non si tratta più di semplice sentimento, ma di smarrimento, dipendenza, dolore.

Ispirato al romanzo breve di William S. Burroughs, scritto negli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1985, Queer è una discesa in una mascolinità tossica e instabile, dove amore e ossessione si intrecciano fino a diventare una cosa sola. ambiguità e la disfunzionalità dell’essere umano. Il personaggio di Lee, alter ego di Burroughs – con il quale condivide una complicata storia affettiva e di dipendenze –  è pieno di contraddizioni: desidera amare, ma ogni gesto d’amore lo porta a distruggere l’altro o se stesso. È emotivamente instabile e Guadagnino non lo edulcora, rappresentando nella maniera più autentica e cruda ogni sua sfaccettatura.

La regia si concentra meno sulle parole e più sul modo in cui i personaggi si muovono, si toccano (o non si toccano), si desiderano senza riuscire a dirlo. Laddove il romanzo di Burroughs racconta lo smarrimento attraverso parole crude e a volte allucinate, Guadagnino lo rende materico: gesti, sguardi, sudore, silenzi imbarazzanti. Il corpo si fa il principale veicolo narrativo. Diventa desiderio, ma anche limite, frustrazione, un confine a volte invalicabile a causa dell’amore che Lee vive in maniera unidirezionale.

“Ho letto il libro a 17 anni e da ragazzo sognavo di cambiare il mondo attraverso il cinema. Questo romanzo mi ha dato qualcosa di importante: la profonda connessione tra i personaggi, la loro descrizione priva di giudizi, il romanticismo. Tutto questo mi ha trasformato per sempre. Con questo film voglio essere fedele a quel giovane che ero”, dichiara il regista.

È vero, Lee è tossico, narcisista, a tratti molesto. Ecco che, in un’epoca che richiede safe spaces, Queer mette in scena la disfunzionalità, l’incertezza dell’essere umano, i lati più torbidi dell’esistenza, le sfumature grigie e le zone più ambigue del desiderio e dell’identità. E Guadagnino sembra volerci dire che solo accettando l’interezza del nostro essere, con tutte le sue crepe, possiamo davvero avvicinarci a una forma di liberazione autentica.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

“Queer”: tra le crepe del desiderio e dell’identità

A distanza di qualche settimana dall’uscita di Queer di Luca Guadagnino, film discusso e divisivo, tentiamo un’analisi a freddo di un’opera che mette a nudo il lato oscuro del desiderio, l’ambiguità dei legami, la disfunzionalità emotiva di chi cerca un posto nel mondo e dentro di sé.

In uno scenario postbellico in un’epoca in cui l’omosessualità è un reato da occultare e da espiare, Città del Messico degli anni Cinquanta non si limita a essere un luogo esotico: è un rifugio, un angolo del mondo in cui può trovare rifugio chi non si sente accettato negli Stati Uniti, ormai minati da una società sempre più chiusa e normata, cercando di scomparire o cominciare una nuova vita. Ed è proprio quello che fa Daniel Craig nei panni di William Lee, il protagonista del film, che tenta di scappare non solo da un paese, ma da se stesso, dai suoi fantasmi e dal suo dolore. Non riesce a sfuggire però all’amore, quello per Eugene Allerton (Drew Starkey) giovane ex-militare, bello e inaccessibile. Un desiderio che si trasforma presto in fissazione. Quando si valica quel confine sottile tra amore e ossessione, si perde il controllo. Non si tratta più di semplice sentimento, ma di smarrimento, dipendenza, dolore.

Ispirato al romanzo breve di William S. Burroughs, scritto negli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1985, Queer è una discesa in una mascolinità tossica e instabile, dove amore e ossessione si intrecciano fino a diventare una cosa sola. ambiguità e la disfunzionalità dell’essere umano. Il personaggio di Lee, alter ego di Burroughs – con il quale condivide una complicata storia affettiva e di dipendenze –  è pieno di contraddizioni: desidera amare, ma ogni gesto d’amore lo porta a distruggere l’altro o se stesso. È emotivamente instabile e Guadagnino non lo edulcora, rappresentando nella maniera più autentica e cruda ogni sua sfaccettatura.

La regia si concentra meno sulle parole e più sul modo in cui i personaggi si muovono, si toccano (o non si toccano), si desiderano senza riuscire a dirlo. Laddove il romanzo di Burroughs racconta lo smarrimento attraverso parole crude e a volte allucinate, Guadagnino lo rende materico: gesti, sguardi, sudore, silenzi imbarazzanti. Il corpo si fa il principale veicolo narrativo. Diventa desiderio, ma anche limite, frustrazione, un confine a volte invalicabile a causa dell’amore che Lee vive in maniera unidirezionale.

“Ho letto il libro a 17 anni e da ragazzo sognavo di cambiare il mondo attraverso il cinema. Questo romanzo mi ha dato qualcosa di importante: la profonda connessione tra i personaggi, la loro descrizione priva di giudizi, il romanticismo. Tutto questo mi ha trasformato per sempre. Con questo film voglio essere fedele a quel giovane che ero”, dichiara il regista.

È vero, Lee è tossico, narcisista, a tratti molesto. Ecco che, in un’epoca che richiede safe spaces, Queer mette in scena la disfunzionalità, l’incertezza dell’essere umano, i lati più torbidi dell’esistenza, le sfumature grigie e le zone più ambigue del desiderio e dell’identità. E Guadagnino sembra volerci dire che solo accettando l’interezza del nostro essere, con tutte le sue crepe, possiamo davvero avvicinarci a una forma di liberazione autentica.

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1977 assicura che il trattamento elettronico e cartaceo dei tuoi Dati Personali avviene nel rispetto della Normativa Applicabile. Eventuali trasferimenti si baseranno alternativamente su una decisione di adeguatezza o sulle Standard Model Clauses approvate dalla Commissione Europea. 

6. Conservazione dei dati.

1977 tratterà i tuoi Dati Personali per il tempo strettamente necessario a raggiungere gli scopi indicati al punto 3. 
1977 in ogni caso, tratterà i tuoi Dati Personali fino al tempo permesso dalla legge Italiana a tutela dei propri interessi (Art. 2947(1)(3) Codice Civile). 

7. I tuoi diritti.

Nei limiti della Normativa Applicabile, hai il diritto di chiedere a 1977 in qualunque momento, l’accesso ai tuoi Dati Personali, la rettifica o la cancellazione degli stessi o di opporti al loro trattamento, la limitazione del trattamento nonché di ottenere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati che ti riguardano.
Le richieste vanno rivolte via e-mail all’indirizzo: info@1977magazine.com 
Ai sensi della Normativa Applicabile, hai in ogni caso il diritto di proporre reclamo all’autorità di controllo competente (i.e. “Garante per la Protezione dei Dati Personali”) qualora ritenessi che il trattamento dei tuoi Dati Personali sia contrario alla normativa vigente.

8. Modifiche.

La presente Privacy Policy è in vigore dal giorno 25 maggio 2018. 
1977 si riserva di modificarne o semplicemente aggiornarne il contenuto, in parte o completamente, anche a causa di variazioni della Normativa Applicabile. 
1977 ti informerà di tali variazioni non appena verranno introdotte e saranno vincolanti non appena pubblicate sul Sito.
1977 ti invita, quindi, a visitare con regolarità questa sezione per prendere cognizione della più recente ed aggiornata versione della Privacy Policy in modo che tu sia sempre aggiornato sui dati raccolti e sull’uso che ne fa 1977.