della morte dell amore film michele soavi recensione

“Dellamorte Dellamore”: non sarebbe meglio un lucido morire che un incosciente vivere?

“La morte che vive, la vita che muore. La morte! La morte! La morte e l’amore… che aspettano insieme il grande giudizio e non hanno mai fine… non hanno mai inizio.” Dellamorte Dellamore, Francesco Dellamorte/Rupert Everett.


Della morte si sa solo cosa non è. Dal Dia de los Muertos e le tombe scavate negli alberi dei Caviteño, alle pire hinduiste e le cerimonie tibetane, fino ai riti funebri occidentali, la storia dell’umanità è inscindibilmente legata alla questione della morte, celebrata, esorcizzata e indagata attraverso rituali diversi in tutto il mondo, nel tentativo di trovare spiegazioni e dare un senso a uno stato imperscrutabile, irreversibile ed apparentemente così tragico. Ma, della morte, si sa solo cosa non è. Ne I riti di passaggio (1909) l’antropologo Arnold Van Gennep descrive la morte come un cambiamento di stato e condizione di un essere, accompagnato da rituali non solo per attestarne il compimento, ma anche per agevolare la comprensione di questo mutamento, permettendo alle persone coinvolte dal lutto di affrontarlo con più consapevolezza e accettazione.

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Ma cosa accadrebbe in un universo ipotetico in cui il cambiamento non solo non è definitivo ma è anzi indefinito e liminale? Una realtà in cui i morti son più vivi dei vivi è quella plasmata in Dellamorte Dellamore (1994) di Michele Soavi, uno dei più grandi registi di genere italiani, epigono del cinema di Bava, Fulci e Argento. Buffalora è un microscopico comune italiano. Qui, Francesco Dellamorte (interpretato da Rupert Everett) lavora come guardiano del cimitero, affiancato dal suo assistente Gnaghi (François Hadji-Lazaro). Ma non è un cimitero qualunque: i morti sepolti lì tornano in vita, innescando situazioni grottesche e surreali che sollevano importanti riflessioni esistenziali.


Il carattere tragicomico della morte a Buffalora, la cittadina in cui è ambientato il film, mette in luce quanto spesso la vita venga condotta unicamente per inerzia, in un pre-lutto perenne e circolare, che si manifesta anche attraverso azioni insensate e reiterate. Ne Al di là del principio del piacere (1920) Freud riprende i concetti di Eros e Thanatos di Empedocle, filosofo e politico del V-IV secolo a.C., per osservare l’umana coazione a ripetere, ossia la tendenza a ricreare situazioni che ci portano a rivivere esperienze spiacevoli, sganciandoci dall’opposto principio del piacere. Nietzsche parla invece dell’eterno ritorno, un drammatico ripetersi ciclico nel corso di una vita dei pensieri e delle esperienze di dolore, gioia e sofferenza; ciclo che può essere interrotto solo quando ne si diventa consapevoli e si riesce a osservarlo e correggerlo. Una sorta di reincarnazione ciclica, simile a quella dei morti che tornano in vita nel cimitero di Buffalora.

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Se la tensione tra Eros, pulsione di vita, e Thanatos, pulsione di morte, è necessaria al delicato equilibrio che regge le fila della civiltà, nel film l’unico principio è il caos, il rovesciamento dell’ordine che ammette uno spazio liminale in cui ogni cosa è possibile. Qui, la pulsione di morte interagisce con la pulsione di vita, ma queste possono anche manifestarsi in modo disconnesso l’una dall’altra, come nel caso di certe pulsioni. Evidenza di questo rovesciamento è ad esempio la relazione tra Gnaghi e la testa mozzata di una donna di cui si era innamorato quando lei era ancora in vita; dinamica che afferma non solo la possibilità, ma l’assurda certezza dell’esistenza di rapporti coronabili solo in morte anziché in vita. Anche le uniche relazioni significative per Francesco ruotano intorno alla morte: si innamora di una ragazza che trapasserà di lì a breve, e le altre donne che incontrerà poi saranno tutte identiche a lei. Insomma, a Buffalora sembra più probabile riuscire a raggiungere la felicità in morte invece che in vita. 


Allora essere in vita non va bene? Se vivere non è altro che un ripetersi inerte e inconsapevole di azioni, pensieri ed eventi su cui si ha un potere di azione relativamente ridotto, e la morte sembrerebbe dare maggiore soddisfazione e spazio di realizzazione per via della sua concretezza e definitezza, non sarebbe meglio un lucido morire che un incosciente vivere? Thomas Ligotti, autore di culto epigono di H.P. Lovecraft ed Edgar Allan Poe, esplora le paure umane ne La cospirazione contro la razza umana (2010), indagando il terrore della morte, la fascinazione per i non morti e il folle desiderio di sopravvivere in eterno attraverso figli puntualmente destinati a soffrire.

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Ligotti sostiene che l’ottimismo sia un orpello delle persone ottuse, cieche di fronte a una grande verità: la razza umana è destinata all’estinzione. Questa visione pessimista, secondo l’autore, apparterrebbe a un numero linitato di menti illuminate, che cercano di eliminare il velo di Maya che distoglie l’umanità dal vedere davvero le cose per quello che sono. “Essere in vita va bene, ne vale la pena” è infatti il mantra che gli umani si ripetono, anche nelle situazioni più dolorose, poiché è meglio vivere che non esistere affatto, e soprattutto perché la morte spaventa, in quanto non sappiamo cosa sia e che tipo di sensazioni comporti.


Ne Lo stato intermedio (2015) Gianluca Magi e Franco Battiato esplorano la paura della morte nell’attuale società tecnologica (principalmente sovrapponibile con quella occidentale), che porta a rimuovere l’argomento dai discorsi e dai pensieri, relegandolo nell’angolo buio dei tabù. In questi contesti, parlare di morte durante una conversazione provoca infatti disagio e imbarazzo, anche in chi afferma di credere nella vita dopo la morte – si pensi a Marcel Duchamp e al suo celebre “sono sempre gli altri che muoiono”; frase che sottolinea la pervasività del pensiero che rifiuta ed esclude la morte dalla vita. Il libro si sofferma in particolare sulla sensazione di fallimento e depressione dilagante nelle società moderne, che deriverebbe proprio dalla diffusa incapacità di concepire serenamente la morte come un dato di realtà e parte della vita stessa.

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Meister Eckhart, teologo e mistico medievale, affermava che la parte di noi che teme la morte è quella che ci tiene attaccati alla vita tramite la paura, e che invece dovremmo lasciar andare per raggiungere la pace interiore e trasformare i nostri demoni in angeli: “L’unica cosa che brucia all’inferno è la parte di te che non vuole lasciare andare la tua vita: i tuoi ricordi, i tuoi attaccamenti. Li bruciano tutti, ma non ti stanno punendo, stanno liberando la tua anima. Se hai paura di morire e ti stai aggrappando, vedrai i diavoli strappare via la tua vita. Se hai fatto pace, allora i diavoli sono davvero angeli che ti liberano dalla terra.”


Dunque, la chiave per una vita più serena è quella di cambiare il nostro approccio alla morte. Ed è con questa riflessione che si chiude Dellamorte Dellamore: Francesco e Gnaghi escono da Buffalora, sperando di trovare un mondo altro dove poter vivere meglio, per scoprire invece che, oltre quel misero paese, non c’è niente, ed è proprio lì che devono imparare ad apprezzare l’esistenza. La strada si interrompe nel nulla, sotto di loro il vuoto, davanti e tutt’intorno un panorama tanto suggestivo quanto intoccabile. “Lo sospettavo, il resto del mondo non esiste” è la frase con cui Francesco entra in una nuova dimensione di consapevolezza, all’interno dell’ennesimo stadio liminale: un non-luogo dalla luce abbagliante raggiunto dopo aver percorso una lunga galleria oscura. Non è ciò che c’era prima e non è ciò che ci sarà dopo, sa solo cosa non è, un anti-spazio materico e allo stesso tempo incorporeo.

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È vero, il resto del mondo non esiste. Esiste soltanto il qui e l’ora. Non esistono né il passato, né il futuro: prendere coscienza del presente significa smettere di rincorrere disperatamente attimi che scivolano via, o di aggrapparci a un futuro immaginabile nell’ora, che altro non è che una proiezione mentale a partire da un modello di pensiero che può solo appartenere all’oggi. Neanche la fuga – fisica o mentale – in luoghi remoti può permettere una reale evasione: da un lato, la distanza è tale da rendere la fuga incompatibile con la quotidianità, e dall’altro lato, se non ci fosse la distanza, questi spazi non sarebbero più remoti e nella loro concretezza sarebbero deludenti. Presa coscienza di non poterci proiettare in questi immaginari idealizzati, più o meno onirici, allora forse ciò che resta è l’accettazione dell’esistenza per ciò che è, la ricerca del bello – in senso lato – in ciò di cui si può fare esperienza sensoriale diretta, senza escapismi disperati e mitizzanti. 


Nell’ultima immagine del film vengono mostrati i personaggi come modellini dentro una palla di vetro con la neve, a rappresentare la possibilità di scappare dalla propria dimensione, persino dalla morte e dalla vita, ma mai dal proprio sé. Ci si potrebbe comunque provare, ma ci si ritroverebbe probabilmente di nuovo al punto di partenza, in un bellissimo panorama e sotto un cielo immenso, ma sempre dentro le stesse pareti di vetro. “È dunque solo un problema d’approccio [la morte]. Quindi non preoccupiamoci.”, si legge ne Lo stato Intermedio”, ed è vero: molto spesso, il problema contiene già la sua soluzione.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Cosa guardare su MUBI a marzo

MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso curatoriale cinematografico.


Per aiutarvi a orientarvi in questa sterminata cineteca online, qui trovate una nostra lista di titoli da non perdere sulla piattaforma; tra nuovi sguardi, perle del passato da riscoprire e titoli che ci hanno colpito in giro per i festival di tutto il mondo.

Matt e Mara, Kazik Radwanski, Canada, 2024 (Cartellone)

Mara ritrova dopo anni un vecchio compagno di college, Matt, con cui riscopre da subito un’intensa connessione. Il rapporto tra i due, nonostante svariate complicanze, cresce e porta entrambi a continue riflessioni su come questo possa definire la loro persona. Un film che riflette sulle forme che può assumere l’amore, su cosa può insegnarci e cosa può farci scoprire di noi, diventando strumento di una ricerca di sé che, per Mara, passerà attraverso il rapporto con Matt.

Grand Theft Hamlet, Pinny Grylls, Sam Crane, UK, 2024 (Cartellone)

Grand Theft Hamlet è la folle impresa di due amici, attori di teatro, che scelgono di portare in scena Amleto nel mondo di GTA; un’idea nata durante la pandemia, periodo in cui i due, disoccupati, si rifugiano dal caos del mondo nell’altrettanto caotico – ma fittizio – mondo Grand Theft Auto Online. Il percorso di Grylls e Crane inizia reclutando attori all’interno della modalità online del gioco, cercando di convincerli, con molte complicazioni, a partecipare alla loro creazione. Documentando il tutto, riescono a creare un progetto che vuole essere portavoce del ruolo dell’arte e della cultura in tempo di crisi.

Amore e Rabbia, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard, Italia, Francia, 1969 (Videoteca)

Un’opera collettiva che esplora il dissenso e la crisi degli anni Sessanta. I registi indagano l’indifferenza sociale e il tormento della fede, contrapponendo l’innocenza dell’essere umano alla brutalità della Storia. Se Godard destruttura il linguaggio dell’amore e della politica, Bellocchio accende il dibattito rivoluzionario. Un’opera frammentaria e intensa, che non offre risposte ma pone interrogativi, lasciandoci con il peso delle nostre domande.

La antena, Esteban Sapir, Argentina, 2007 (Videoteca)

In un futuro prossimo, gli abitanti di una città hanno perso l’uso della voce e si ritrovano sotto il controllo di MrTv, una sorta di dittatore mediatico che proietta sullo schermo, come didascalie, le loro opinioni, i loro pensieri e le loro riflessioni personali. Un film denso di simbolismi, in cui riecheggia la storia dell’Argentina e della dittatura peronista: non potersi esprimere, essere privati non solo della propria voce ma anche di pensieri e parole, rappresenta il clima di terrore caratterizzante di ogni dittatura.

Medicina per la malinconia, Barry Jenkins, USA, 2008 (Videoteca)

Il primo lungometraggio di Barry Jenkins racconta la storia d’amore di un giorno fra Micah e Jo, due giovani bohémien che vivono a San Francisco. Si instaura così un’intrigante dinamiche tra i due, che esplorano la città mentre discutono di quelle che sono le loro relazioni reciproche, di discriminazioni etniche, gentrificazione e integrazione sociale.

L’uomo che cadde sulla Terra, Nicolas Roeg, UK, 1976 (Videoteca)

Un’opera visionaria e malinconica sull’alienazione. David Bowie interpretal l’enigmatico Thomas Jerome Newton, un alieno giunto sulla Terra per salvare il pianeta, ma che finisce per soccombere alle tentazioni umane. Il sogno di tornare a casa si sgretola tra alcol, denaro e manipolazioni governative. Con una narrazione frammentata e immagini ipnotiche, Roeg costruisce una riflessione amara sul consumismo e la perdita di identità. Un film affascinante e disturbante, sospeso tra realtà e allucinazione.

Parasite, Bong Joon Ho, Corea del Sud, 2019 (Videoteca)

La lotta di classe è il tema centrale nel pluripremiato film di Bong Joon Ho, in cui una famiglia povera riesce, grazie al figlio minore, a riscattarsi e a migliorare la propria condizione sociale; a quale costo, però? Un film che porta a interrogarsi sui confini della moralità e che non smette di stupire con colpi di scena che non offrono mai risposte ma sollevano tutti una cruciale domanda: chi è il vero parassita nella nostra società?

Tempo per Amare, Metin Erksan, Turchia, 1965 (Videoteca)

Un dramma intenso e poetico sull’amore impossibile. La storia segue l’incontro tra un giovane pittore e una donna ricca, la cui relazione è segnata da differenze sociali e un destino avverso. Con un uso magistrale del bianco e nero, Erksan esplora il tema del desiderio e del sacrificio con una delicatezza struggente. Un’opera raffinata e malinconica, che lascia un segno grazie alla sua forza visiva e emotiva.

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