Il sole che si nasconde e il cielo che si colora di tante sfumature, prima di lasciarsi cullare da un soffice blu, appena percettibile fuori dalla finestra. Una candela con la fiamma fioca, al profumo inebriante di rosa. Una scrivania piena di fogli, carichi non soltanto di parole, ma anche di anni di esperienze. Una voce leggera, dolce, che ama la vita in ogni suo groviglio. Questa l’atmosfera in cui incontriamo Laura Ephrikian, attrice di origine armena.
In occasione del film Amerikatsi di Michael Goorjian, dedicato alla cultura e alle tradizioni armene, abbiamo deciso di confrontarci con Ephrikian per esplorare lo sfondo su cui si staglia la storia di Charlie, sopravvissuto al genocidio armeno che, dopo essersi nascosto all’interno di un baule, riesce a giungere negli Stati Uniti. Tuttavia, il desiderio di ritrovare le proprie radici spinge l’uomo, nel 1948, a tornare nella sua terra nativa, divenuta Repubblica dell’Unione Sovietica, dove viene arrestato ed è costretto a vedere la vita scorrere dietro alle sbarre di un’oscura prigione.

Perché oggi si parla così poco del genocidio armeno?
Non se n’è mai parlato tanto, neanche durante il genocidio armeno stesso. Mi sono chiesta spesso come mai, il motivo riguarda tanti aspetti insieme, in primis l’antipatia, l’invidia e l’odio che le bande naziste dei Giovani Turchi nutrivano verso gli armeni: volevano far sparire l’Armenia, una ricca nazione cristiana, per dare vita a un grande impero ottomano. Prima del genocidio armeno, infatti, c’era una cultura pazzesca ed erano abili commercianti, avevano già iniziato a spostarsi verso la Cina per recuperare certi materiali preziosi. Al momento dello sterminio, delle 18 banche ottomane 16 erano armene. Questo suggerisce un parallelismo tra gli armeni e gli ebrei: quando Hitler, nel Mein Kampf, si interrogava su come sterminare gli ebrei, scrive che sarebbe stato necessario operare come era stato fatto nei confronti degli armeni, nel silenzio e nell’indifferenza di tutto il mondo. L’Armenia è sempre stata “un’isola che non c’è”: un popolo straordinario, ma che nessuno conosce.
Le va di raccontarci la storia della sua famiglia in Armenia?
L’unico che è scappato dall’Armenia prima del genocidio armeno, quando c’erano le bande dei Giovani Turchi, è stato mio nonno, Akop Ephrikian. Aveva 7, 8 anni quando fuggì e, in circa due notti – al buio, per non essere visto –, riuscì ad arrivare a Istanbul, dove sapeva che avrebbe trovato degli amici di famiglia. Appena bussò alla loro porta, lo buttarono subito su un barcone diretto a Venezia, per paura: sapevano che lì sarebbe stato troppo pericoloso nascondere un armeno. Nonno è stato uno dei tanti ad arrivare, come molte persone che oggi continuano a raggiungere i porti europei. Per sua fortuna, a Venezia lo hanno portato all’Isola degli armeni, che esisteva già dal Settecento. Aveva i piedi distrutti a causa del lungo viaggio e lo hanno curato. Era un ragazzo intelligente, proveniva da una famiglia colta, conosceva già due lingue e ne ha imparate altre quattro. È diventato il presidente della tipografia dell’Isola – lavoro di grande importanza e prestigio all’epoca. Lì si stampavano tutti i libri sacri, che presentavano molte parti dorate nelle copertine, e solo mio nonno aveva le chiavi per accedere alle sale di lavorazione, dove era conservato tutto l’oro. Mio nonno ha anche scritto un volume sulla storia dell’Armenia, fino all’Egitto, illustrato dal pittore Giuliano Zasso, preside dell’Accademia d’Arte di Venezia. Laura, la minore delle sue quattro figlie, alla morte dell’artista è andata all’Isola degli armeni per prendere le carte e i disegni del padre e, proprio in quel frangente, è scattato l’amore tra lei e mio nonno.

Onestamente, però, nessuno della mia famiglia ha mai davvero sentito un forte attaccamento all’Armenia, perché il nonno non l’ha voluto: sosteneva che il seguito della storia del suo Paese sarebbe stato nefasto, aveva intuito che la sua patria non sarebbe più ritornata così rigogliosa com’era prima del genocidio armeno. Quindi di racconti familiari ho solo qualche storia che mi è stata raccontata. Addirittura, mio padre non ha mai insegnato a me e mio fratello l’armeno. Tuttavia, in un momento di tenerezza, mi ha dedicato un nome armeno, cioè Gayane, e io mi sento sempre un po’ anche Gayane Ephrikian. Il nonno è morto quando io avevo solo 8 anni, ma ho tanti ricordi legati a lui: quando i miei genitori, partigiani, sono dovuti fuggire durante la guerra, io sono rimasta al suo fianco. Si è sempre occupato di me. Era un signore che parlava poco l’italiano, ma io l’ho adorato e amato tantissimo. Ed è un amore che continua ancora oggi.
Nel libro Una famiglia armena (Spazio Cultura edizioni, 2021), sottolinea di essere nata nel 1940, nel periodo del primo bombardamento di Mestre da parte dei francesi. Come questo contesto ha segnato la sua vita e quella della sua famiglia?
Non si sono mai verificate violenze rivolte direttamente alla mia famiglia stretta. Ma ricordo che i fascisti cercavano mio padre, in quanto capo partigiano, ed erano riusciti a catturare e incarcerare mio nonno. Mi hanno raccontato che, in prigione, ogni sera gli veniva detto: “Domani ti fuciliamo”. Tuttavia, lui si metteva a dormire sereno, mentre tutti gli altri carcerati erano sconvolti e piangevano. Intanto, papà era sceso dalla montagna, dove si nascondeva, ed era a Mestre ospite da un amico: se avessero cercato veramente di fucilare mio nonno, lui si sarebbe sacrificato e fatto prendere, pur di salvarlo. Per fortuna, poi, non è servito: hanno rilasciato mio nonno perché era impassibile e non diceva mai niente.

Nei suoi scritti, emerge quanto abbia dovuto fare i conti con il suo cognome armeno, fin dalle scuole.
È stato un incubo. Nel 1946, appena finita la guerra, le maestre della mia scuola elementare erano quasi tutte anziane, non particolarmente allegre né generose. Durante il fascismo era vietato avere nomi stranieri, per questo mio nonno si faceva chiamare soltanto Ephrik. Invece io ero sempre Ephrikian. Quando facevano l’appello, le insegnanti pronunciavano il mio cognome con una cattiveria inaudita, come se fossi un ragno uscito da un buco. Mi chiedevano: “Da dove vieni?”. Io, con l’ingenuità tipica di una bambina di 6 anni, rispondevo: “Vengo da casa mia”. Non mi sono mai sentita accettata completamente come una persona nata in Italia. Ho sofferto molto a causa di questa circostanza e di tutti i pregiudizi annessi, anche i miei compagni di classe mi prendevano spesso in giro. Ma mio padre mi ricordava sempre di essere grata di avere una discendenza così importante, dato che gli armeni sono il popolo più antico che si conosca. Così, piano piano, è nato in me un certo orgoglio, che ancora mi porto dietro. Quando ho visitato i musei in Armenia, sono rimasta sbalordita. Ricordo in particolare un’opera scritta dagli amanuensi armeni, considerata il libro più grande del mondo. Nel periodo in cui si sparse la voce che gli armeni venivano catturati e mandati nel deserto della Mesopotamia a morire di fame e di sete, due donne decisero di salvare quel libro tagliandolo in due parti verticali e tenendone una a testa (so che una nascondeva le pagine sotto al vestito, fingendo di essere incinta). Una volta finita la guerra (non pensavano ancora che sarebbe sfociata nel genocidio armeno), si sarebbero ricongiunte per ricostruire il libro. E così fecero. Oggi rappresenta l’orgoglio della lotta delle donne armene, che nel popolo armeno sono molto rispettate e trattate alla pari degli uomini.
Questo ha influenzato anche la sua carriera artistica?
Pensando alla mia carriera, ricordo che c’è stato un momento in cui un regista televisivo ha criticato il mio cognome, ritenendolo illeggibile, e mi ha chiesto di trovare un nome d’arte. Mi è venuta in mente la nonna Laura, della famiglia Altan, e ho proposto quel cognome, ma sono subito arrivate altre prese in giro che lo storpiavano in “Bassan” per via della mia bassa statura. Così, un giorno, a casa di Anni De Sica, che lavorava in un’agenzia dove spesso portavo le mie fotografie, suo padre, vedendomi rassegnata mi consigliò di sostituire il “ph” con “f”, per rendere la lettura più semplice. Adesso ho ripreso il mio nome originale. C’è anche chi mi chiama “l’ex moglie di Morandi”, pur di non pronunciare il mio nome, come se i miei studi e la mia preparazione non valessero quanto il nome di Morandi, talmente importante e pesante che, anche dopo la separazione, continuano ad associarmi a lui. Sentivo di aver bruciato il mio nome per un amore che, pian piano, si era andato ad affievolire a causa di un mondo, quello della musica, che mi soffocava. Così, ho deciso di ricominciare da capo con la radio e col montaggio, dove non serviva far vedere il volto né il fisico. Mi sono anche occupata di arredamento, amavo moltissimo le case e da un caro amico scenografo del Piccolo Teatro ho imparato moltissimo. Ho creato così il mio modo di essere.

Cosa prova oggi, quando torna in Armenia? In che modo la sua storia ha influenzato il suo presente?
In Armenia non ci sono più tornata da un po’. Negli ultimi due anni c’è stata la guerra, con molti morti e feriti, ma, ancora una volta, nessuno si è occupato di documentare questo massacro. Mi sono innamorata però dell’Africa, in particolare del Kenya, dove un governo che si professa democratico e che riceve molti aiuti economici dal resto del mondo, pensa solo a trarre benefici dal territorio, sfruttando la popolazione locale. I bambini lavorano dalle 8 alle 10 ore al giorno nel fango, per estrarre materiali con cui in Europa e in America vengono realizzati i cellulari, oro e brillanti. Tutto quello che c’è in Africa viene portato via dagli europei e dagli americani. Da questo punto di vista, le popolazioni africane non hanno ottenuto alcun vantaggio dall’essersi “democratizzate”. Da quasi trent’anni, vado in Kenya circa ogni sei mesi. Molte cose sono cambiate, rispetto agli inizi, grazie a persone che si sono date molto da fare. Ci raccontiamo che siamo nati tutti uguali, ma non è così. La discrepanza tra le vite è impressionante: loro non vivono, sopravvivono. Quando qualcuno muore c’è una festa, anche se è un bambino, poiché significa che c’è una bocca in meno da sfamare. Non mangiano neppure le banane, perché le vendono.
Quali sono le principali iniziative solidali di cui fa parte in Africa? E ha ancora qualche sogno nel cassetto?
Se ci ripenso, ho fatto davvero di tutto. Ho costruito pozzi, case, un orfanotrofio. Adesso voglio creare una nuova scuola elementare per evitare che i bambini rischino la vita ogni giorno attraversando una strada molto trafficata, in cui sfrecciano dei grandi camion adibiti al trasporto di frutta e verdura da spedire tramite navi. Mi sto adoperando per una raccolta fondi per realizzare concretamente questo progetto. Intanto, abbiamo comprato il terreno. Non so quante altre volte potrò permettermi di partire, data la mia età (84 anni, tra qualche mese 85), ma so che non voglio smettere. Per il mio ultimo libro, L’amore non sceglie, ho deciso che una parte dei proventi sarà destinata al progetto.