Movie Tips: Le meraviglie

Le spighe di grano accartocciate al sole e i prati brulli della campagna della Tuscia fanno da cornice a un grande casolare isolato, abitato da una famiglia sui generis: Wolfgang (Sam Louwyck), un papà burbero e indaffarato, e sua moglie Angelica (Alba Rohrwacher) lavorano indefessamente per mantenere le loro quattro figlie. Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), di tredici anni, è la più grande e fa le veci del capofamiglia, è su di lei che grava la responsabilità di ereditare l’intera produzione del miele e i fardelli del lavoro campestre.

A turbare la quiete di un mondo fatto di belati e di ronzii, di spremute naturali e di salsa di pomodoro, ci pensa un processo inarrestabile: l’adolescenza, quella agli albori di Gelsomina, eterna quella dei genitori. E le promesse fricchettone di una vita vissuta immersi nella natura incontaminata e lontana dalle macerie esistenziali della città si frantumano innanzi alle lusinghe di un programma televisivo che dà la possibilità di vincere un mucchi di soldi. Gelsomina, ben interpretata da una giovanissima attrice italo/rumena, è la crepa, la verità che interrompe il sogno, ormai sbiadito, di una vita riservata e felice, ai confini delle bugie e del degrado della società contemporanea.

La famiglia de Le meraviglie è l’epicentro di una civiltà contadina che difende con le unghie la propria scelta e la propria indipendenza ed è anche la stessa che decide di immolare a tutti i costi le comodità moderne, rimanendo infine schiacciata dalla propria caparbietà. È evidente il richiamo autobiografico alla famiglia della regista e sceneggiatrice, Alice Rohrwacher, cresciuta tra i campi da coltivare e le arnie da smielare. Assaporato il nettare della vita, l’autrice intraprende un viaggio culturale nell’Italia centrale, per incontrare uomini e donne vivi e limpidi, come i personaggi del film. Gelsomina e le sue sorelle esistono, chissà dove e chissà quando. Eppure ci sono. E i loro occhi così curiosi, le parole rimangiate dalle lacrime, i gesti affettuosi a stento mostrati sono il risultato di una ricerca tra i luoghi dell’anima che nel paesaggio faticoso e delicato del film trova un taglio drammatico e mai edulcorato.

Le meraviglie, che agli occhi delle bambine sono una parrucca, una fata turchina, un vestito immacolato e le sembianze di Milly Catena (Monica Bellucci), sono in realtà quelle che noi abbiamo dimenticato: il valore della famiglia e delle cure, la ricchezza della fatica e del perdono, la bontà della natura. Le meraviglie racconta di una vita che non c’è più e che, forse, potrebbe tornare a esserci

Agnese Lovecchio

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

“Queer”: tra le crepe del desiderio e dell’identità

A distanza di qualche settimana dall’uscita di Queer di Luca Guadagnino, film discusso e divisivo, tentiamo un’analisi a freddo di un’opera che mette a nudo il lato oscuro del desiderio, l’ambiguità dei legami, la disfunzionalità emotiva di chi cerca un posto nel mondo e dentro di sé.

In uno scenario postbellico in un’epoca in cui l’omosessualità è un reato da occultare e da espiare, Città del Messico degli anni Cinquanta non si limita a essere un luogo esotico: è un rifugio, un angolo del mondo in cui può trovare rifugio chi non si sente accettato negli Stati Uniti, ormai minati da una società sempre più chiusa e normata, cercando di scomparire o cominciare una nuova vita. Ed è proprio quello che fa Daniel Craig nei panni di William Lee, il protagonista del film, che tenta di scappare non solo da un paese, ma da se stesso, dai suoi fantasmi e dal suo dolore. Non riesce a sfuggire però all’amore, quello per Eugene Allerton (Drew Starkey) giovane ex-militare, bello e inaccessibile. Un desiderio che si trasforma presto in fissazione. Quando si valica quel confine sottile tra amore e ossessione, si perde il controllo. Non si tratta più di semplice sentimento, ma di smarrimento, dipendenza, dolore.

Ispirato al romanzo breve di William S. Burroughs, scritto negli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1985, Queer è una discesa in una mascolinità tossica e instabile, dove amore e ossessione si intrecciano fino a diventare una cosa sola. ambiguità e la disfunzionalità dell’essere umano. Il personaggio di Lee, alter ego di Burroughs – con il quale condivide una complicata storia affettiva e di dipendenze –  è pieno di contraddizioni: desidera amare, ma ogni gesto d’amore lo porta a distruggere l’altro o se stesso. È emotivamente instabile e Guadagnino non lo edulcora, rappresentando nella maniera più autentica e cruda ogni sua sfaccettatura.

La regia si concentra meno sulle parole e più sul modo in cui i personaggi si muovono, si toccano (o non si toccano), si desiderano senza riuscire a dirlo. Laddove il romanzo di Burroughs racconta lo smarrimento attraverso parole crude e a volte allucinate, Guadagnino lo rende materico: gesti, sguardi, sudore, silenzi imbarazzanti. Il corpo si fa il principale veicolo narrativo. Diventa desiderio, ma anche limite, frustrazione, un confine a volte invalicabile a causa dell’amore che Lee vive in maniera unidirezionale.

“Ho letto il libro a 17 anni e da ragazzo sognavo di cambiare il mondo attraverso il cinema. Questo romanzo mi ha dato qualcosa di importante: la profonda connessione tra i personaggi, la loro descrizione priva di giudizi, il romanticismo. Tutto questo mi ha trasformato per sempre. Con questo film voglio essere fedele a quel giovane che ero”, dichiara il regista.

È vero, Lee è tossico, narcisista, a tratti molesto. Ecco che, in un’epoca che richiede safe spaces, Queer mette in scena la disfunzionalità, l’incertezza dell’essere umano, i lati più torbidi dell’esistenza, le sfumature grigie e le zone più ambigue del desiderio e dell’identità. E Guadagnino sembra volerci dire che solo accettando l’interezza del nostro essere, con tutte le sue crepe, possiamo davvero avvicinarci a una forma di liberazione autentica.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

“Queer”: tra le crepe del desiderio e dell’identità

A distanza di qualche settimana dall’uscita di Queer di Luca Guadagnino, film discusso e divisivo, tentiamo un’analisi a freddo di un’opera che mette a nudo il lato oscuro del desiderio, l’ambiguità dei legami, la disfunzionalità emotiva di chi cerca un posto nel mondo e dentro di sé.

In uno scenario postbellico in un’epoca in cui l’omosessualità è un reato da occultare e da espiare, Città del Messico degli anni Cinquanta non si limita a essere un luogo esotico: è un rifugio, un angolo del mondo in cui può trovare rifugio chi non si sente accettato negli Stati Uniti, ormai minati da una società sempre più chiusa e normata, cercando di scomparire o cominciare una nuova vita. Ed è proprio quello che fa Daniel Craig nei panni di William Lee, il protagonista del film, che tenta di scappare non solo da un paese, ma da se stesso, dai suoi fantasmi e dal suo dolore. Non riesce a sfuggire però all’amore, quello per Eugene Allerton (Drew Starkey) giovane ex-militare, bello e inaccessibile. Un desiderio che si trasforma presto in fissazione. Quando si valica quel confine sottile tra amore e ossessione, si perde il controllo. Non si tratta più di semplice sentimento, ma di smarrimento, dipendenza, dolore.

Ispirato al romanzo breve di William S. Burroughs, scritto negli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1985, Queer è una discesa in una mascolinità tossica e instabile, dove amore e ossessione si intrecciano fino a diventare una cosa sola. ambiguità e la disfunzionalità dell’essere umano. Il personaggio di Lee, alter ego di Burroughs – con il quale condivide una complicata storia affettiva e di dipendenze –  è pieno di contraddizioni: desidera amare, ma ogni gesto d’amore lo porta a distruggere l’altro o se stesso. È emotivamente instabile e Guadagnino non lo edulcora, rappresentando nella maniera più autentica e cruda ogni sua sfaccettatura.

La regia si concentra meno sulle parole e più sul modo in cui i personaggi si muovono, si toccano (o non si toccano), si desiderano senza riuscire a dirlo. Laddove il romanzo di Burroughs racconta lo smarrimento attraverso parole crude e a volte allucinate, Guadagnino lo rende materico: gesti, sguardi, sudore, silenzi imbarazzanti. Il corpo si fa il principale veicolo narrativo. Diventa desiderio, ma anche limite, frustrazione, un confine a volte invalicabile a causa dell’amore che Lee vive in maniera unidirezionale.

“Ho letto il libro a 17 anni e da ragazzo sognavo di cambiare il mondo attraverso il cinema. Questo romanzo mi ha dato qualcosa di importante: la profonda connessione tra i personaggi, la loro descrizione priva di giudizi, il romanticismo. Tutto questo mi ha trasformato per sempre. Con questo film voglio essere fedele a quel giovane che ero”, dichiara il regista.

È vero, Lee è tossico, narcisista, a tratti molesto. Ecco che, in un’epoca che richiede safe spaces, Queer mette in scena la disfunzionalità, l’incertezza dell’essere umano, i lati più torbidi dell’esistenza, le sfumature grigie e le zone più ambigue del desiderio e dell’identità. E Guadagnino sembra volerci dire che solo accettando l’interezza del nostro essere, con tutte le sue crepe, possiamo davvero avvicinarci a una forma di liberazione autentica.

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