Il cortometraggio come strumento per riflettere sul presente

Da sabato 19 agosto a sabato 26 agosto 2023 Parco Raggio di Pontenure ha ospitato la XXII edizione di Concorto Film Festival, che quest’anno sceglie di puntare i riflettori sulla filmografia del Brasile, un paese contraddittorio e dalla forte identità nazionale, spesso fucina di rivoluzioni e terreno fertile per sperimentazioni linguistiche, che puntava e punta ancora oggi a identificarsi come popolo, paese libero e cinematografia autonoma e indipendente. Pensiamo al Cinema Novo degli anni ’60, che aveva dato voce e immagini alla guerriglia artistica per l’emancipazione dall’etnocentrismo culturale europeo, con una presa di posizione critica nei confronti di correnti contemporanee europee come il Neorealismo e Nouvelle Vague, considerate simbolo di aristocrazia borghese, individualismo e parafascismo.

Attraverso ricerche curatoriali come quella di Concorto, la concezione eurocentrica del cinema (e della cultura in senso lato) si incrina, lasciando emergere cinematografie percepite come lontane eppure cariche di contenuti e forme capaci di comunicare valori trasversali. Nel caso del Brasile, significa fare della denuncia dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza economica e della lotta di classe il proprio potenziale estetico.

Come afferma Simone Bardoni, co-direttore artistico del Festival e curatore del focus: “Si tratta di un cinema che è ancora una grande incognita per il largo pubblico, a noi interessa andare verso cinematografie meno conosciute che hanno dei contenuti e una ricerca visiva, di genere e di trame orientata in una direzione fortemente ancorata al contemporaneo”.

Non si tratta più, quindi, di soddisfare lo sguardo occidentale colonialista ed esotista, ma di denunciare le debolezze, le meschinità, le prevaricazioni e i limiti di un paese e di come queste gravino sulla popolazione locale, eterna protagonista della cinematografia Brasiliana. Una popolazione costituita da rider sotto contratti di sfruttamento (Fantasma Neon), persone transgender perseguitate (São Paulo Open Wound) e soggettività sopraffatte dalla misoginia (Vaca Profana), che nell’oscurità della città e della minoranza si fanno voce della nuova rivoluzione in atto.

Entità prese dalla realtà e rese materiale filmico per esprimere la complessità di un’identità nazionale che passa per la necessaria lotta per la libertà e per l’uguaglianza collettive. Gli autori scelti per il focus (Gabriela Gaia Meirelles, Leonardo Martinelli, Fauston da Silva, Carolina Markowicz, Elizabeth Rocha Salgado e René Guerra) fanno del mezzo cinematografico uno strumento politico, adottando chi il linguaggio della satira, chi della commedia, chi del dramma e chi del crimine.

L’eterna dinamica di potere tra oppresso e oppressore riecheggia in ogni corto presentato all’interno del focus: “Il cortometraggio ha una potenza legata all’immediato, tocca gli argomenti, non li sfiora come il lungometraggio. È l’oggetto audiovisivo ideale per raccontare il mondo di oggi. I corti sono molto più liberi, sono slegati da dinamiche di trend, di pubblico e di produzione. Si possono esprimere storie radicali, forti, pesanti”, afferma Bardoni. “Il cinema breve ha questa potenza di riflettere sul presente e sulle situazioni sociologiche, politiche e culturali di un paese rispetto a molto cinema lungo. Questo perché i corti sono legati indissolubilmente al presente, e ciò fa in modo che la narrazione sia molto più aggiornata e sensibile verso certe tematiche”.

Federica Furia

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Ratcatcher Lynne Ramsay casual viewing

Il casual viewing come risposta all’horror vacui della sovrastimolazione digitale


La nostra soglia dell’attenzione è ai minimi storici, e forse non servono neanche studi come questo per dimostrarlo. Complici i social media e la velocità del mondo in cui viviamo, mentre svolgiamo una qualsiasi attività sentiamo la necessità di essere intrattenuti, che sia da un podcast, un messaggio vocale di dieci minuti di un’amica che vive in un altro stato – o anche nella stessa città, ammettiamolo senza vergogna – o una serie tv che faccia da sottofondo. Il casual viewing, come spiegato nel saggio di Will Tavlin, è proprio questo: consumare contenuti che scorrono, e persino meglio, proprio quando non stiamo prestando attenzione ai contenuti stessi, che altrimenti risulterebbero noiosi e sono anzi creati appositamente per essere “guardati a metà”.


Nei palinsesti delle piattaforme di streaming, questo genere di contenuti sta prendendo sempre più spazio, mentre ha sempre meno importanza la qualità tematica e cinematografica di un prodotto, il fatto che sia accattivante, ricercato, intelligente o che abbia qualsiasi altra caratteristica capace di attirare il pubblico e tenerlo sul divano – l’obiettivo di portarlo in sala è ormai stato abbandonato, o meglio, sono radicalmente cambiate la strategia, il contesto e il target ormai da anni. Guardiamo ormai la maggior parte dei film dalle nostre camere, dai nostri salotti, dalla nostra cucina, persino dal nostro bagno o dai trasporti pubblici, e spesso non stiamo nemmeno guardando. La chiave per il successo di un contenuto da fruire in streaming si è ormai ridotta all’essenziale: poter garantire “abbastanza di tutto per poter attrarre chiunque”, citando Tavlin – e da qui il termine casual viewing.

gummo csual viewing

Ted Sarandos e Reed Hastings, co-fondatori di Netflix, hanno spesso parlato dell’inefficienza della policy di Blockbuster che, secondo loro, avrebbe portato la catena al fallimento: dimenticare di restituire un film noleggiato entro una certa data si tramutava in una tassa extra da pagare. In sostanza, i clienti venivano puniti per le loro sviste. Leggenda vuole che Hastings ebbe l’illuminazione di creare Netflix proprio dopo aver ricevuto una multa di 40 dollari per il ritardo della riconsegna di Apollo 13. Per questo ha deciso di creare un progetto senza penali e del tutto diverso da un negozio fisico, in cui le persone finivano per cercare sempre i soliti film e il magazzino si riempiva di titoli invenduti e dimenticati. Una volta avviato, hanno iniziato a studiare il modo in cui gli utenti usavano la piattaforma: da quale dispositivo guardavano i contenuti, quali scene saltavano, quali mettevano in pausa o riguardavano più volte. Così, si resero conto che spesso non prestavano davvero attenzione allo schermo, ma piuttosto cercavano un sottofondo per accompagnare le loro attività quotidiane, avere compagnia mentre stendevano il bucato o lavavano i piatti. Da qui sono nati i cosiddetti Typical Netflix Movies, ovvero una categoria di contenuti creata specificatamente per assecondare questo fenomeno del casual viewing. Si tratta di film che condividono determinate caratteristiche: un titolo chiaro che annuncia esattamente di cosa parla il contenuto, scene corte con i due personaggi principali e, soprattutto, dialoghi forzati e didascalici in cui gli attori annunciano quello che stanno facendo piuttosto che recitare, in modo che il solo audio sia sufficiente per non perdere nulla della trama – e addio ai pregnanti silenzi e ai non detti antoniani.


Come spiegato in questo articolo del 2000, la soglia di attenzione media era di 12 secondi, e nel 2013 il valore è sceso ulteriormente a 8 entro, causato principalmente dalla iper digitalizzazione e dalla pervasività delle nuove tecnologie che, pur portando molti benefici pragmatici nelle nostre vite, hanno introdotto modifiche sostanziali nel nostro assetto cognitivo, soprattutto nel caso del loro utilizzo in fase infantile – come segnalato dal rapporto del 2013 dell’Accademia delle Scienze francese. L’articolo evidenzia inoltre le conseguenze concrete di un uso eccessivo dei dispositivi digitali, come una diminuzione delle attività fisiche e sociali nel mondo reale, la privazione del sonno e un maggiore rischio di problemi legati alla vista. La risposta da parte del panorama audiovisivo non è costituita solo da contenuti studiati per il casual viewing, ma anche da altre modalità di intrattenimento come gli Sludge Content – di cui vi parlavamo in questo articolo -, ovvero clip accostate in modalità split screen al contenuto principale come per “riempire” uno spazio, mantenere attiva l’attenzione del pubblico e far sì che porti a termine la visione del video.

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Nonostante gli studi accreditati che dimostrano quanto l’inquinamento digitale sia nocivo, continuiamo a ricaderci, come in un loop di dipendenza. Che cosa a c’è alla base di questo attaccamento? In una società in cui tutto sembra accadere più sui social media che nella vita reale, essere offline può innescare un profondo senso di solitudine e di esclusione. Per questo non vogliamo perderci le storie della nostra amica in vacanza a Bali, ma, allo stesso tempo, vederla che balla su una spiaggia paradisiaca mentre siamo nel nostro grigio appartamento di città in un qualsiasi mercoledì pomeriggio provoca una sensazione di inadeguatezza dovuta all’inevitabile paragone in cui scivoliamo. Questo articolo analizza infatti il legame sempre più stretto che si è creato tra il valore che ci attribuiamo e la quantità di cose che riusciamo a fare: la società turbocapitalista ci ha intossicato a tal punto da convincerci che più riusciamo a produrre, più siamo meritevoli e abili. Ed ecco che la nostra attenzione è costantemente frammentata, divisa tra tutte le attività che sentiamo di dover realizzare per sentirci all’altezza della rappresentazione (spesso irreale e irrealistica) delle vite altrui che vediamo scorrere sui social – come avveniva sullo schermo della televisione ai tempi d’oro dei reality show. Il nostro cervello, anziché concentrarsi su quelli che sono i nostri principali e autentici bisogni fisici ed emotivi, è sopraffatto da questa spinta al produrre e al dimostrare quanto e come si sta producendo, attribuendo a un like, un commento positivo o una qualsiasi interazione il valore di una ricompensa, che per pochissimo tempo ci darà un senso di appagamento, per poi calare velocemente e lasciare il posto a un nuovo, ennesimo ciclo di urgenza di creare, dimostrare, comunicare.


Ecco perché il casual viewing funziona: continuamente e costantemente sottopost3 a stimoli, non sappiamo più gestire la noia, stare nei momenti di vuoto, che ci affanniamo a riempire con qualsiasi contenuto. Articoli come questo, sempre più frequenti negli ultimi anni, analizzano la difficoltà di distaccarsi dai social media e le conseguenze deleterie dell’abuso di contenuti online, descritte con il termine, diventato virale negli ultimi anni, “brain rot” – parola del 2024 secondo la Oxford University Press. La scelta di Netflix di creare una categoria appositamente dedicata al casual viewing, chiamata “play something”, rivela la volontà di investire e lucrare sulla dinamica di dipendenza che si innesta tra utenti e contenuti intenzionalmente svuotati di senso. Ma non dimentichiamo che è ancora nostra la scelta di ciò che merita la nostra attenzione, decidendo di essere complici o di sottrarci rispetto a questo sistema.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

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La nostra soglia dell’attenzione è ai minimi storici, e forse non servono neanche studi come questo per dimostrarlo. Complici i social media e la velocità del mondo in cui viviamo, mentre svolgiamo una qualsiasi attività sentiamo la necessità di essere intrattenuti, che sia da un podcast, un messaggio vocale di dieci minuti di un’amica che vive in un altro stato – o anche nella stessa città, ammettiamolo senza vergogna – o una serie tv che faccia da sottofondo. Il casual viewing, come spiegato nel saggio di Will Tavlin, è proprio questo: consumare contenuti che scorrono, e persino meglio, proprio quando non stiamo prestando attenzione ai contenuti stessi, che altrimenti risulterebbero noiosi e sono anzi creati appositamente per essere “guardati a metà”.


Nei palinsesti delle piattaforme di streaming, questo genere di contenuti sta prendendo sempre più spazio, mentre ha sempre meno importanza la qualità tematica e cinematografica di un prodotto, il fatto che sia accattivante, ricercato, intelligente o che abbia qualsiasi altra caratteristica capace di attirare il pubblico e tenerlo sul divano – l’obiettivo di portarlo in sala è ormai stato abbandonato, o meglio, sono radicalmente cambiate la strategia, il contesto e il target ormai da anni. Guardiamo ormai la maggior parte dei film dalle nostre camere, dai nostri salotti, dalla nostra cucina, persino dal nostro bagno o dai trasporti pubblici, e spesso non stiamo nemmeno guardando. La chiave per il successo di un contenuto da fruire in streaming si è ormai ridotta all’essenziale: poter garantire “abbastanza di tutto per poter attrarre chiunque”, citando Tavlin – e da qui il termine casual viewing.

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Come spiegato in questo articolo del 2000, la soglia di attenzione media era di 12 secondi, e nel 2013 il valore è sceso ulteriormente a 8 entro, causato principalmente dalla iper digitalizzazione e dalla pervasività delle nuove tecnologie che, pur portando molti benefici pragmatici nelle nostre vite, hanno introdotto modifiche sostanziali nel nostro assetto cognitivo, soprattutto nel caso del loro utilizzo in fase infantile – come segnalato dal rapporto del 2013 dell’Accademia delle Scienze francese. L’articolo evidenzia inoltre le conseguenze concrete di un uso eccessivo dei dispositivi digitali, come una diminuzione delle attività fisiche e sociali nel mondo reale, la privazione del sonno e un maggiore rischio di problemi legati alla vista. La risposta da parte del panorama audiovisivo non è costituita solo da contenuti studiati per il casual viewing, ma anche da altre modalità di intrattenimento come gli Sludge Content – di cui vi parlavamo in questo articolo -, ovvero clip accostate in modalità split screen al contenuto principale come per “riempire” uno spazio, mantenere attiva l’attenzione del pubblico e far sì che porti a termine la visione del video.

fahrenheit 451 casual viewing

Nonostante gli studi accreditati che dimostrano quanto l’inquinamento digitale sia nocivo, continuiamo a ricaderci, come in un loop di dipendenza. Che cosa a c’è alla base di questo attaccamento? In una società in cui tutto sembra accadere più sui social media che nella vita reale, essere offline può innescare un profondo senso di solitudine e di esclusione. Per questo non vogliamo perderci le storie della nostra amica in vacanza a Bali, ma, allo stesso tempo, vederla che balla su una spiaggia paradisiaca mentre siamo nel nostro grigio appartamento di città in un qualsiasi mercoledì pomeriggio provoca una sensazione di inadeguatezza dovuta all’inevitabile paragone in cui scivoliamo. Questo articolo analizza infatti il legame sempre più stretto che si è creato tra il valore che ci attribuiamo e la quantità di cose che riusciamo a fare: la società turbocapitalista ci ha intossicato a tal punto da convincerci che più riusciamo a produrre, più siamo meritevoli e abili. Ed ecco che la nostra attenzione è costantemente frammentata, divisa tra tutte le attività che sentiamo di dover realizzare per sentirci all’altezza della rappresentazione (spesso irreale e irrealistica) delle vite altrui che vediamo scorrere sui social – come avveniva sullo schermo della televisione ai tempi d’oro dei reality show. Il nostro cervello, anziché concentrarsi su quelli che sono i nostri principali e autentici bisogni fisici ed emotivi, è sopraffatto da questa spinta al produrre e al dimostrare quanto e come si sta producendo, attribuendo a un like, un commento positivo o una qualsiasi interazione il valore di una ricompensa, che per pochissimo tempo ci darà un senso di appagamento, per poi calare velocemente e lasciare il posto a un nuovo, ennesimo ciclo di urgenza di creare, dimostrare, comunicare.


Ecco perché il casual viewing funziona: continuamente e costantemente sottopost3 a stimoli, non sappiamo più gestire la noia, stare nei momenti di vuoto, che ci affanniamo a riempire con qualsiasi contenuto. Articoli come questo, sempre più frequenti negli ultimi anni, analizzano la difficoltà di distaccarsi dai social media e le conseguenze deleterie dell’abuso di contenuti online, descritte con il termine, diventato virale negli ultimi anni, “brain rot” – parola del 2024 secondo la Oxford University Press. La scelta di Netflix di creare una categoria appositamente dedicata al casual viewing, chiamata “play something”, rivela la volontà di investire e lucrare sulla dinamica di dipendenza che si innesta tra utenti e contenuti intenzionalmente svuotati di senso. Ma non dimentichiamo che è ancora nostra la scelta di ciò che merita la nostra attenzione, decidendo di essere complici o di sottrarci rispetto a questo sistema.

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I sistemi informatici del Sito raccolgono alcuni Dati Personali, la cui trasmissione è implicita nell’uso dei protocolli di comunicazione di Internet. Si tratta di informazioni che non sono raccolte per essere associate a te, ma che per loro stessa natura potrebbero, attraverso elaborazioni ed associazioni con dati detenuti da terzi, permettere di identificarti. Tra questi ci sono gli indirizzi IP o i nomi a dominio dei dispositivi utilizzati per connetterti al Sito, gli indirizzi in notazione URI (Uniform ResourceIdentifier) delle risorse richieste, l’orario della richiesta, il metodo utilizzato nel sottoporre la richiesta al server, la dimensione del file ottenuto in risposta, il codice numerico indicante lo stato della risposta data dal server (buon fine, errore, ecc.) ed altri parametri relativi al tuo sistema operativo e ambiente informatico.
Questi dati vengono utilizzati al fine di ricavare informazioni statistiche anonime sull’uso del Sito e per controllarne il corretto funzionamento; per permettere – vista l’architettura dei sistemi utilizzati – la corretta erogazione delle varie funzionalità da te richieste, per ragioni di sicurezza e di accertamento di responsabilità in caso di ipotetici reati informatici ai danni del Sito o di terzi e vengono cancellati dopo 7 giorni.

b. Dati forniti volontariamente.
Attraverso il Sito www.1977magazine.com, hai la possibilità di fornire volontariamente Dati Personali come il nome e l’indirizzo e-mail per contattare 1977  attraverso il form “Contatti”.
1977 tratterà questi dati nel rispetto della Normativa Applicabile, assumendo che siano riferiti a te o a terzi soggetti che ti hanno espressamente autorizzato a conferirli in base ad un’idonea base giuridica che legittima il trattamento dei dati in questione. Rispetto a tali ipotesi, ti poni come autonomo titolare del trattamento, assumendoti tutti gli obblighi e le responsabilità di legge. In tal senso, conferisci sul punto la più ampia manleva rispetto ad ogni contestazione, pretesa, richiesta di risarcimento del danno da trattamento, etc. che dovesse pervenire a 1977 da terzi soggetti i cui Dati Personali siano stati trattati attraverso il tuo utilizzo del Sito in violazione della Normativa Applicabile.

c. Cookie e tecnologie affini.
1977 raccoglie Dati Personali attraverso cookies. E ciò con la espressa finalità di offrire una migliore esperienza di navigazione, oltre alle ulteriori finalità descritte nel presente documento e nella Cookie Policy.

3. Finalità, base giuridica e natura obbligatoria o facoltativa del trattamento.

I Dati Personali che fornisci attraverso il Sito saranno trattati da 1977per le seguenti finalità:
a) finalità inerenti l’esecuzione di un contratto di cui sei parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su tua richiesta;
b) finalità di ricerche/analisi statistiche su dati aggregati o anonimi, senza dunque possibilità di identificare l’utente, volti a misurare il funzionamento del Sito, misurare il traffico e valutare usabilità e interesse;
c) finalità relative all’adempimento di un obbligo legale al quale 1977 è soggetta;
d) finalità necessarie ad accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali;
La base legale del trattamento di Dati Personali per le finalità di cui al punto a) è l’erogazione di un servizio o il riscontro ad una richiesta che non richiedano il consenso ai sensi della Normativa Applicabile.
La finalità di cui al punto b) non comporta il trattamento di Dati Personali, mentre la finalità di cui al punto d) rappresenta un trattamento legittimo di Dati Personali ai sensi della Normativa Applicabile in quanto, una volta conferiti i Dati Personali, il trattamento è necessario per adempiere ad un obbligo di legge a cui 1977 è soggetto.
Il conferimento dei tuoi Dati Personali per la finalità sopra elencate è facoltativo, ma il loro eventuale mancato conferimento potrebbe rendere impossibile riscontrare una tua richiesta o adempiere ad un obbligo legale a cui 1977 è soggetto.

4. Destinatari.

I tuoi Dati Personali potranno essere condivisi, per le finalità specificate al punto 3, con:
a. soggetti necessari per l’erogazione dei servizi offerti dal Sito, tra cui a titolo esemplificativo, l’invio di e-mail e l’analisi del funzionamento del Sito che agiscono tipicamente in qualità di responsabili del trattamento di 1977 ;
b. persone autorizzate da 1977 al trattamento dei Dati Personali che si siano impegnate alla riservatezza o abbiano un adeguato obbligo legale di riservatezza, quali dipendenti e collaboratori (a. e b. sono, collettivamente, definiti i “Destinatari”);
c. autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni quando richiesto dalla Normativa Applicabile.

5. Trasferimenti.

1977 assicura che il trattamento elettronico e cartaceo dei tuoi Dati Personali avviene nel rispetto della Normativa Applicabile. Eventuali trasferimenti si baseranno alternativamente su una decisione di adeguatezza o sulle Standard Model Clauses approvate dalla Commissione Europea. 

6. Conservazione dei dati.

1977 tratterà i tuoi Dati Personali per il tempo strettamente necessario a raggiungere gli scopi indicati al punto 3. 
1977 in ogni caso, tratterà i tuoi Dati Personali fino al tempo permesso dalla legge Italiana a tutela dei propri interessi (Art. 2947(1)(3) Codice Civile). 

7. I tuoi diritti.

Nei limiti della Normativa Applicabile, hai il diritto di chiedere a 1977 in qualunque momento, l’accesso ai tuoi Dati Personali, la rettifica o la cancellazione degli stessi o di opporti al loro trattamento, la limitazione del trattamento nonché di ottenere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati che ti riguardano.
Le richieste vanno rivolte via e-mail all’indirizzo: info@1977magazine.com 
Ai sensi della Normativa Applicabile, hai in ogni caso il diritto di proporre reclamo all’autorità di controllo competente (i.e. “Garante per la Protezione dei Dati Personali”) qualora ritenessi che il trattamento dei tuoi Dati Personali sia contrario alla normativa vigente.

8. Modifiche.

La presente Privacy Policy è in vigore dal giorno 25 maggio 2018. 
1977 si riserva di modificarne o semplicemente aggiornarne il contenuto, in parte o completamente, anche a causa di variazioni della Normativa Applicabile. 
1977 ti informerà di tali variazioni non appena verranno introdotte e saranno vincolanti non appena pubblicate sul Sito.
1977 ti invita, quindi, a visitare con regolarità questa sezione per prendere cognizione della più recente ed aggiornata versione della Privacy Policy in modo che tu sia sempre aggiornato sui dati raccolti e sull’uso che ne fa 1977.