All We Imagine as Light cala definitivamente il cinema di Payal Kapadiya dentro a un territorio ibrido e inquieto: in quella crepa che negli ultimi decenni si è aperta tra il documentario e la fiction, tra la ricerca di un girato autentico e l’arco narrativo di storie sceneggiate, dove i confini possono essere confusi continuamente. Una carrellata dà inizio al film: le babeliche strade di Mumbai sono riprese dalla camera car che trema, sostenuta solo da racconti speranzosi e alienanti, testimonianze varie di vissuti cittadini. Un voice over polifonico che però apre subitaneamente le porte alla storia di due colleghe, coinquiline e amiche, Prabha e Anu, separate dagli anni ma unite da sentimenti e desideri nuovi e vecchi che si affacciano, o si ripropongono, nella loro vita.
Payal Kapadiya, al suo secondo film, appare già una promessa del World Cinema del futuro, sul solco di un percorso impostato con grande solidità contestualmente agli studi al Film and Television Institute of India, quando ha realizzato i suoi primi cortometraggi scegliendo di affrontare temi e indagini formali che riprenderà nei film successivi. In particolare, sono due le marche autoriali che, messe costantemente in relazione, sembrano creare la struttura della sua filmografia: l’ambiente circostante ai personaggi, che sia la natura stessa o la civiltà che scivola progressivamente verso la natura per ritrovarsi – come è anche in All We Imagine as Light –, e il lavoro ricercato sul suono, che permea le immagini di suoni acusmatici e di una costante voce umana, in voice over o off.
Nel cortometraggio The Last Mango Before the Monsoon (2015) erano due scienziati a infrangersi sul mondo naturale, camminando faticosamente attraverso la foresta per catturare (documentare) i movimenti degli animali durante la notte, servendosi delle immagini delle telecamere. Il contrappunto sonoro e visivo era dato da una donna anziana, lontana, in città, che quelle foreste aveva abbandonato: un contrappunto d’amore, di ricordo, del marito ormai defunto. E qui c’era già tutto. Dalla memoria parlata al paesaggio sensoriale che il cinema può restituire, nel suono della voce umana e nel suono della natura, nei contrasti e nelle frizioni dei diversi punti di vista.
And What Is the Summer Saying? (2018) è ambientato nel remoto villaggio di Kondwall, nell’India centro-occidentale, in cui gli spiriti degli animali, delle rocce e degli alberi risuonavano al ritmo delle donne che sussurravano i loro amori perduti, mentre un giovane si recava a caccia di miele nella foresta e uno strano fumo si sprigionava dalla terra. Nel bianco e nero delle sequenze girate di giorno, nel colore illuminato dalla luna e dai fuochi notturni, nell’apparizione di icone sacre aggiunte in animazione, l’onirico si inscriveva nel misterioso, aprendo a scorci di verità impensate fino alla visione stessa. È così e da subito un cinema di liberazione, quello di Payal Kapadiya, in cui mettere in condizione il pubblico, a partire dalla visione e dall’ascolto, di lottare insieme ai personaggi, costretti a instaurare una connessione con l’ambiente che li circonda attraverso il superamento di forze misteriose (di volta in volta naturali, fantasmatiche o sociali) che tendono a degradare la loro capacità connettiva.
Nel suo primo lungometraggio documentario, A Night of Knowing Nothing, la libertà era ancora di più la libertà del cinema come medium, o del cinema come mezzo per raggiungere la libertà: il tema del rapporto dell’essere umano con l’ambiente circostante è qui delegato all’osservazione delle proteste studentesche del 2015, che avevano scosso anche il Film and Television Institute of India. Più che l’osservazione, sarebbe meglio dire l’azione: l’azione della macchina da presa e del medium, l’azione capace di catturare una istanza, di registrare una lotta collettiva (quella di giovani stanchi del sistema classista del potere indiano e della difficoltà di accesso all’istruzione e all’informazione) e di farsi corpo con essa. Un documentario levigato però da una cornice di realtà trasformata in narrazione, nella quale (vere) lettere d’amore di una studentessa al fidanzato intervallavano le immagini delle proteste studentesche con scampoli di sogni e visioni, in una tensione irrisolta tra poetico e politico.
Ed ecco che All We Imagine as Light, che ha portato a Payal Kapadiya il Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes, richiama tutte queste rifrazioni precedenti: come se la regista fosse già talmente dentro al suo cinema, e alla sensibilità del cinema contemporaneo, pur essendo al suo secondo film, da creare cerchi concentrici che propagano figure stilistiche e concettuali che a loro volta si rincorrono in un terreno indefinito tra documentario (la ripresa di immagini, suoni e voci dalla realtà) e finzione. Ma una finzione che non si palesa solo nell’esigenza dell’intreccio, bensì nella memoria come immaginazione futura e nei fantasmi come rappresentazione viva. È centrale in questo senso l’incontro che l’infermiera Prabha (una Kani Kusruti dagli occhi tristissimi e al contempo pieni di vitalità) ha nella seconda parte del film, quando le protagoniste lasceranno la città e temporaneamente il loro lavoro nell’ospedale di Mumbai per recarsi sulla costa indiana. Nel corpo e nel volto di un uomo che dall’oceano viene trasportato, quasi morente, sulla spiaggia, Prabha non può che riconoscervi una persona troppo lontana per essere davvero lì: un’entità tra la vita e la morte, ma di carne, e attraverso quel corpo Prabha può medicare e ricucire le ferite di una vita, per guardare finalmente avanti.
In All We Imagine as Light le storie d’amore delle due protagoniste, così diverse nelle diverse fasi della loro vita, sono accomunate dalla volontà di governarle attraverso il rapporto tra i propri pensieri, esposti attraverso la voce e lo sguardo che gli occhi posano sul mondo. Tanto che le immagini del film, della città e degli elementi ambientali (o atmosferici) non assumono facilmente uno statuto oggettivo, ma appaiono come emanazioni dirette delle vite di Prabha e della studentessa Anu. Ad esempio nella sequenza che arriva come più immediata e più rimane nella memoria, quella delle comunicazioni telefoniche (per messaggio) che sembrano però epistolari (ancora la forma della lettera) di Anu per il ragazzo che ha appena conosciuto. Parole d’amore, e di fremito, si agganciano alle nuvole grigie in corsa: correlativo oggettivo, sul crinale tra l’indomito e il lezioso, delle nuove emozioni che prova la giovane donna.
Payal Kapadiya si pone la questione di come il linguaggio possa essere libero di imprimersi sopra quel mondo: la voce off, per l’appunto, che si imprime sul mondo delle immagini filmate dalla realtà, proprio perché liberata dalla sua fonte. Ed è così che la regista denuncia, mettendolo in scena, come il linguaggio abbia il dovere di leggere la realtà (quella dei personaggi, e quella del mondo fuori) e così farla sua, per comprenderla – e comprendersi fino in fondo – o amarla – e amarsi davvero. Fino alle spiagge bianche del silenzio, quelle che chiudono All We Imagine As Light: alla fine del mondo, dove Prabha e Anu contemplano l’arrivo di una vera libertà, quella del cinema del futuro.