All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

“All We Imagine as Light”: il cinema della regista indiana Payal Kapadiya, tra poetica e politica

All We Imagine as Light cala definitivamente il cinema di Payal Kapadiya dentro a un territorio ibrido e inquieto: in quella crepa che negli ultimi decenni si è aperta tra il documentario e la fiction, tra la ricerca di un girato autentico e l’arco narrativo di storie sceneggiate, dove i confini possono essere confusi continuamente. Una carrellata dà inizio al film: le babeliche strade di Mumbai sono riprese dalla camera car che trema, sostenuta solo da racconti speranzosi e alienanti, testimonianze varie di vissuti cittadini. Un voice over polifonico che però apre subitaneamente le porte alla storia di due colleghe, coinquiline e amiche, Prabha e Anu, separate dagli anni ma unite da sentimenti e desideri nuovi e vecchi che si affacciano, o si ripropongono, nella loro vita.


Payal Kapadiya, al suo secondo film, appare già una promessa del World Cinema del futuro, sul solco di un percorso impostato con grande solidità contestualmente agli studi al Film and Television Institute of India, quando ha realizzato i suoi primi cortometraggi scegliendo di affrontare temi e indagini formali che riprenderà nei film successivi. In particolare, sono due le marche autoriali che, messe costantemente in relazione, sembrano creare la struttura della sua filmografia: l’ambiente circostante ai personaggi, che sia la natura stessa o la civiltà che scivola progressivamente verso la natura per ritrovarsi – come è anche in All We Imagine as Light –, e il lavoro ricercato sul suono, che permea le immagini di suoni acusmatici e di una costante voce umana, in voice over o off.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel cortometraggio The Last Mango Before the Monsoon (2015) erano due scienziati a infrangersi sul mondo naturale, camminando faticosamente attraverso la foresta per catturare (documentare) i movimenti degli animali durante la notte, servendosi delle immagini delle telecamere. Il contrappunto sonoro e visivo era dato da una donna anziana, lontana, in città, che quelle foreste aveva abbandonato: un contrappunto d’amore, di ricordo, del marito ormai defunto. E qui c’era già tutto. Dalla memoria parlata al paesaggio sensoriale che il cinema può restituire, nel suono della voce umana e nel suono della natura, nei contrasti e nelle frizioni dei diversi punti di vista.


And What Is the Summer Saying? (2018) è ambientato nel remoto villaggio di Kondwall, nell’India centro-occidentale, in cui gli spiriti degli animali, delle rocce e degli alberi risuonavano al ritmo delle donne che sussurravano i loro amori perduti, mentre un giovane si recava a caccia di miele nella foresta e uno strano fumo si sprigionava dalla terra. Nel bianco e nero delle sequenze girate di giorno, nel colore illuminato dalla luna e dai fuochi notturni, nell’apparizione di icone sacre aggiunte in animazione, l’onirico si inscriveva nel misterioso, aprendo a scorci di verità impensate fino alla visione stessa. È così e da subito un cinema di liberazione, quello di Payal Kapadiya, in cui mettere in condizione il pubblico, a partire dalla visione e dall’ascolto, di lottare insieme ai personaggi, costretti a instaurare una connessione con l’ambiente che li circonda attraverso il superamento di forze misteriose (di volta in volta naturali, fantasmatiche o sociali) che tendono a degradare la loro capacità connettiva.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel suo primo lungometraggio documentario, A Night of Knowing Nothing, la libertà era ancora di più la libertà del cinema come medium, o del cinema come mezzo per raggiungere la libertà: il tema del rapporto dell’essere umano con l’ambiente circostante è qui delegato all’osservazione delle proteste studentesche del 2015, che avevano scosso anche il Film and Television Institute of India. Più che l’osservazione, sarebbe meglio dire l’azione: l’azione della macchina da presa e del medium, l’azione capace di catturare una istanza, di registrare una lotta collettiva (quella di giovani stanchi del sistema classista del potere indiano e della difficoltà di accesso all’istruzione e all’informazione) e di farsi corpo con essa. Un documentario levigato però da una cornice di realtà trasformata in narrazione, nella quale (vere) lettere d’amore di una studentessa al fidanzato intervallavano le immagini delle proteste studentesche con scampoli di sogni e visioni, in una tensione irrisolta tra poetico e politico.


Ed ecco che All We Imagine as Light, che ha portato a Payal Kapadiya il Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes, richiama tutte queste rifrazioni precedenti: come se la regista fosse già talmente dentro al suo cinema, e alla sensibilità del cinema contemporaneo, pur essendo al suo secondo film, da creare cerchi concentrici che propagano figure stilistiche e concettuali che a loro volta si rincorrono in un terreno indefinito tra documentario (la ripresa di immagini, suoni e voci dalla realtà) e finzione. Ma una finzione che non si palesa solo nell’esigenza dell’intreccio, bensì nella memoria come immaginazione futura e nei fantasmi come rappresentazione viva. È centrale in questo senso l’incontro che l’infermiera Prabha (una Kani Kusruti dagli occhi tristissimi e al contempo pieni di vitalità) ha nella seconda parte del film, quando le protagoniste lasceranno la città e temporaneamente il loro lavoro nell’ospedale di Mumbai per recarsi sulla costa indiana. Nel corpo e nel volto di un uomo che dall’oceano viene trasportato, quasi morente, sulla spiaggia, Prabha non può che riconoscervi una persona troppo lontana per essere davvero lì: un’entità tra la vita e la morte, ma di carne, e attraverso quel corpo Prabha può medicare e ricucire le ferite di una vita, per guardare finalmente avanti.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

In All We Imagine as Light le storie d’amore delle due protagoniste, così diverse nelle diverse fasi della loro vita, sono accomunate dalla volontà di governarle attraverso il rapporto tra i propri pensieri, esposti attraverso la voce e lo sguardo che gli occhi posano sul mondo. Tanto che le immagini del film, della città e degli elementi ambientali (o atmosferici) non assumono facilmente uno statuto oggettivo, ma appaiono come emanazioni dirette delle vite di Prabha e della studentessa Anu. Ad esempio nella sequenza che arriva come più immediata e più rimane nella memoria, quella delle comunicazioni telefoniche (per messaggio) che sembrano però epistolari (ancora la forma della lettera) di Anu per il ragazzo che ha appena conosciuto. Parole d’amore, e di fremito, si agganciano alle nuvole grigie in corsa: correlativo oggettivo, sul crinale tra l’indomito e il lezioso, delle nuove emozioni che prova la giovane donna.


Payal Kapadiya si pone la questione di come il linguaggio possa essere libero di imprimersi sopra quel mondo: la voce off, per l’appunto, che si imprime sul mondo delle immagini filmate dalla realtà, proprio perché liberata dalla sua fonte. Ed è così che la regista denuncia, mettendolo in scena, come il linguaggio abbia il dovere di leggere la realtà (quella dei personaggi, e quella del mondo fuori) e così farla sua, per comprenderla – e comprendersi fino in fondo – o amarla – e amarsi davvero. Fino alle spiagge bianche del silenzio, quelle che chiudono All We Imagine As Light: alla fine del mondo, dove Prabha e Anu contemplano l’arrivo di una vera libertà, quella del cinema del futuro.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

donna disegnata che fuma alla finestra suzan pitt

Suzan Pitt: la surreale mostruosità del desiderio femminile

Jude Ellison Sady Doyle, nel saggio Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021) teorizza come ciò che non è inquadrabile in definizioni precostituite, e che quindi non si può controllare, spaventa, e per esorcizzarlo lo si trasforma in un mostro. Una donna diventa mostruosa quando è libera dal controllo eterocispatriarcale, quando non si può definire, non si può ammansire, non si può manipolare. E vale anche per il desiderio femminile. Miracolo o mostruosità? È proprio questa la domanda chiave posta dal cortometraggio d’animazione El Doctor (2006) di Suzan Pitt (1943-2019) di fronte a fiori che sbocciano da un corpo umano.


Nelle opere della regista e artista statunitense Suzan Pitt il mostruoso femminile si fa surreale: si assiste spesso a dinamiche che rifuggono l’ordine precostituito, in nome di un desiderio di libertà, di rappresentazione e di possibilità più ampio e variegato che assume la forma di un sogno lucido lisergico e trippy, come nel cortometraggio d’animazione Joy street (1995), in cui la protagonista ritrova la voglia di vivere attraverso l’aiuto di un topo emerso da un posacenere e della connessione con la natura, intesa come metafora di cura. Sulle note diegetiche di What a Wonderful World di Louis Armstrong, viene così ridisegnata l’immagine della depressione in ottica vitale e femminista. Un’ottica radicalmente opposta rispetto a quella predominante nella rappresentazione della storia del cinema (e nella società, essendo il primo riflesso della seconda).  

suzan pitt mostruoso femminile asparagus film

Riprendendo il concetto di male gaze teorizzato nel 1975 dalla critica britannica Laura Mulvey, nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Suzan Pitt prende come modello la dualità binaria consolidata (maschile-attivo e femminile-passivo), per poi ribaltarlo completamente. In una gabbia sociale in cui per i sogni e i desideri delle soggettività marginalizzate non c’è spazio, lei, quei sogni e desideri li prende e ne iper satura i colori, lasciando che lo spazio se lo prendano tutto, pervadendo lo schermo e chi ne fruisce. Lo fa ad esempio con Asparagus (1979), il suo più celebre corto di animazione e claymation, in cui rappresenta una sessualità femminile libera e consapevole.


Il film si apre con l’immagine di un serpente che avvolge una gamba con un tacco rosso, simbolo sovente affiancato alla femminilità tradizionale costruita dallo sguardo maschile e performata all’interno della società patriarcale. I due elementi rimandano immediatamente al Giardino dell’Eden, in cui Eva, considerata la prima donna della storia secondo la visione cristiano-cattolica, si macchia della colpa del peccato originario e, per causa sua, l’intera umanità dovrà caricarsi dei mali del mondo, ma in un’ottica ribaltata: Suzan Pitt rivendica il desiderio femminile, marcando con orgoglio il valore della conoscenza e dell’emancipazione dai dettami calati dall’alto. Eppure, nonostante l’insistenza sui simboli di autodeterminazione, la protagonista rivela poi di essere senza volto, senza identità, come a chiedersi e chiederci: è possibile trovare una propria affermazione quando non si ha lo spazio per farlo, se non lottando e utilizzando strumenti spesso legati al privilegio e dunque non accessibili a tutte, e non rimane altra scelta che accettare di rifugiarsi nella performance di un’auto rappresentazione data da modelli imposti esternamente?

In uno dei momenti iniziali del film il soggetto protagonista, rappresentato con i tratti di una donna, accende una luce dalla forma clitoridea: un evidente rimando all’erotismo (femminile) come momento costitutivo di una soggettività, e che quindi va rivendicato come irriducibilmente libero, ambiguo, stratificato, che si ribella a ogni tipo di incasellamento. Le prime pubblicazioni rilevanti a questo proposito sono The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, attivista femminista e autrice statunitense, e Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) di Carla Lonzi, attivista, saggista, critica ed editrice italiana; entrambi scritti poco prima dell’uscita di Asparagus. Nel primo, l’autrice contesta i resoconti sulla sessualità femminile che considerano l’orgasmo clitorideo come immaturo, disfunzionale o frigido. Nel secondo, Lonzi, costruisce la soggettività femminile proprio a partire dall’orgasmo clitorideo, non solo in quanto non subalterno ma del tutto indipendente all’uomo.


Un altro simbolo di costrizione patriarcale è rappresentato da una casa giocattolo posta su un tavolino in Asparagus, al cui interno vi è un’altra casa, e al cui interno si trova un’altra casa ancora, in un inquietante e opprimente effetto Droste che sottolinea l’incatenante mancanza di scelta e libertà per le soggettività femminili. Ma la visione di Suzan Pitt del desiderio femminile è tanto surreale e dark quanto intrisa di potenza e solidità, come se attraverso le sue opere volesse incoraggiare a una ribellione, ma una ribellione intima e stratificata, che con autentico struggimento si interroga e si prende tutto lo spazio che vuole, liberando tutti i desideri da ogni tipo di repressione e manipolazione patriarcale. Così, in una scena finale marcatamente onirica, la protagonista di Asparagus rilascia i suoi, di desideri, precedentemente stipati simbolicamente in una borsa, in un teatro gremito di gente che guarda: finalmente tutto quel colore e quel sogno hanno diritto di essere, di esistere, hanno uno spazio.

Un sogno può essere più reale del reale, perché contiene la possibilità che i desideri prendano spazio. È una dimensione, quella dell’onirico surreale, onnipresente nei lavori di Pitt, che esprimono una realtà espansa, fatta (anche) di irrazionalità e di inconscio. Crocus (1971), suo primo corto d’animazione, è un sogno a occhi aperti inscritto in mura domestiche, ambientato principalmente in una camera da letto – dettaglio che va ulteriormente a richiamare la situazione onirica. I personaggi sono ingabbiati in ruoli familiari statici e immobilizzanti, al punto che non riescono a muoversi in maniera fluida ma solo meccanicamente. L’unico elemento slegato da questo immobilismo è la flora, che entra in scena librandosi nell’aria e uscendo dalla finestra aperta sul mondo esterno e sulle sue infinite possibilità, come a rappresentare il desiderio femminile che si trova una via di fuga e libertà dalla casa con le sue costrizioni patriarcali. I desideri e i sogni sono colorati, prendono spazio, escono dalla casa, vivono.


La rivoluzione della protagonista avviene anche attraverso due mezzi di rappresentazione: la macchina da presa e lo specchio. In una scena emblematica del film, compare la suo alter ego riflessa allo specchio con in mano la camera, andando a suggerire l’equiparazione tra l’esperienza di identificazione cinematografica e gli stati onirici: entrambi offrono un’esperienza che può anche essere distante dalla realtà quotidiana, richiedendo una temporanea sospensione della vita ordinaria e delle regole annesse, permettendo di esplorare, talvolta in modo esplicito, esigenze e desideri che potrebbero altrimenti inammissibili nella vita reale, e Suzan Pitt questo lo sa bene. Dopo qualche secondo, termina l’atto di auto-voyeurismo e il soggetto pare prendere consapevolezza di sé e delle proprie fantasie. Consapevolezza ancora troppo ingombrante per il mondo a lei esteriore in cui è suo malgrado immersa: a fine cortometraggio le tende della casa, così come gli occhi, si chiudono, e il sogno ricomincia.


Margherita Conti

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

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Suzan Pitt: la surreale mostruosità del desiderio femminile

Jude Ellison Sady Doyle, nel saggio Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021) teorizza come ciò che non è inquadrabile in definizioni precostituite, e che quindi non si può controllare, spaventa, e per esorcizzarlo lo si trasforma in un mostro. Una donna diventa mostruosa quando è libera dal controllo eterocispatriarcale, quando non si può definire, non si può ammansire, non si può manipolare. E vale anche per il desiderio femminile. Miracolo o mostruosità? È proprio questa la domanda chiave posta dal cortometraggio d’animazione El Doctor (2006) di Suzan Pitt (1943-2019) di fronte a fiori che sbocciano da un corpo umano.


Nelle opere della regista e artista statunitense Suzan Pitt il mostruoso femminile si fa surreale: si assiste spesso a dinamiche che rifuggono l’ordine precostituito, in nome di un desiderio di libertà, di rappresentazione e di possibilità più ampio e variegato che assume la forma di un sogno lucido lisergico e trippy, come nel cortometraggio d’animazione Joy street (1995), in cui la protagonista ritrova la voglia di vivere attraverso l’aiuto di un topo emerso da un posacenere e della connessione con la natura, intesa come metafora di cura. Sulle note diegetiche di What a Wonderful World di Louis Armstrong, viene così ridisegnata l’immagine della depressione in ottica vitale e femminista. Un’ottica radicalmente opposta rispetto a quella predominante nella rappresentazione della storia del cinema (e nella società, essendo il primo riflesso della seconda).  

suzan pitt mostruoso femminile asparagus film

Riprendendo il concetto di male gaze teorizzato nel 1975 dalla critica britannica Laura Mulvey, nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema, Suzan Pitt prende come modello la dualità binaria consolidata (maschile-attivo e femminile-passivo), per poi ribaltarlo completamente. In una gabbia sociale in cui per i sogni e i desideri delle soggettività marginalizzate non c’è spazio, lei, quei sogni e desideri li prende e ne iper satura i colori, lasciando che lo spazio se lo prendano tutto, pervadendo lo schermo e chi ne fruisce. Lo fa ad esempio con Asparagus (1979), il suo più celebre corto di animazione e claymation, in cui rappresenta una sessualità femminile libera e consapevole.


Il film si apre con l’immagine di un serpente che avvolge una gamba con un tacco rosso, simbolo sovente affiancato alla femminilità tradizionale costruita dallo sguardo maschile e performata all’interno della società patriarcale. I due elementi rimandano immediatamente al Giardino dell’Eden, in cui Eva, considerata la prima donna della storia secondo la visione cristiano-cattolica, si macchia della colpa del peccato originario e, per causa sua, l’intera umanità dovrà caricarsi dei mali del mondo, ma in un’ottica ribaltata: Suzan Pitt rivendica il desiderio femminile, marcando con orgoglio il valore della conoscenza e dell’emancipazione dai dettami calati dall’alto. Eppure, nonostante l’insistenza sui simboli di autodeterminazione, la protagonista rivela poi di essere senza volto, senza identità, come a chiedersi e chiederci: è possibile trovare una propria affermazione quando non si ha lo spazio per farlo, se non lottando e utilizzando strumenti spesso legati al privilegio e dunque non accessibili a tutte, e non rimane altra scelta che accettare di rifugiarsi nella performance di un’auto rappresentazione data da modelli imposti esternamente?

In uno dei momenti iniziali del film il soggetto protagonista, rappresentato con i tratti di una donna, accende una luce dalla forma clitoridea: un evidente rimando all’erotismo (femminile) come momento costitutivo di una soggettività, e che quindi va rivendicato come irriducibilmente libero, ambiguo, stratificato, che si ribella a ogni tipo di incasellamento. Le prime pubblicazioni rilevanti a questo proposito sono The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, attivista femminista e autrice statunitense, e Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) di Carla Lonzi, attivista, saggista, critica ed editrice italiana; entrambi scritti poco prima dell’uscita di Asparagus. Nel primo, l’autrice contesta i resoconti sulla sessualità femminile che considerano l’orgasmo clitorideo come immaturo, disfunzionale o frigido. Nel secondo, Lonzi, costruisce la soggettività femminile proprio a partire dall’orgasmo clitorideo, non solo in quanto non subalterno ma del tutto indipendente all’uomo.


Un altro simbolo di costrizione patriarcale è rappresentato da una casa giocattolo posta su un tavolino in Asparagus, al cui interno vi è un’altra casa, e al cui interno si trova un’altra casa ancora, in un inquietante e opprimente effetto Droste che sottolinea l’incatenante mancanza di scelta e libertà per le soggettività femminili. Ma la visione di Suzan Pitt del desiderio femminile è tanto surreale e dark quanto intrisa di potenza e solidità, come se attraverso le sue opere volesse incoraggiare a una ribellione, ma una ribellione intima e stratificata, che con autentico struggimento si interroga e si prende tutto lo spazio che vuole, liberando tutti i desideri da ogni tipo di repressione e manipolazione patriarcale. Così, in una scena finale marcatamente onirica, la protagonista di Asparagus rilascia i suoi, di desideri, precedentemente stipati simbolicamente in una borsa, in un teatro gremito di gente che guarda: finalmente tutto quel colore e quel sogno hanno diritto di essere, di esistere, hanno uno spazio.

Un sogno può essere più reale del reale, perché contiene la possibilità che i desideri prendano spazio. È una dimensione, quella dell’onirico surreale, onnipresente nei lavori di Pitt, che esprimono una realtà espansa, fatta (anche) di irrazionalità e di inconscio. Crocus (1971), suo primo corto d’animazione, è un sogno a occhi aperti inscritto in mura domestiche, ambientato principalmente in una camera da letto – dettaglio che va ulteriormente a richiamare la situazione onirica. I personaggi sono ingabbiati in ruoli familiari statici e immobilizzanti, al punto che non riescono a muoversi in maniera fluida ma solo meccanicamente. L’unico elemento slegato da questo immobilismo è la flora, che entra in scena librandosi nell’aria e uscendo dalla finestra aperta sul mondo esterno e sulle sue infinite possibilità, come a rappresentare il desiderio femminile che si trova una via di fuga e libertà dalla casa con le sue costrizioni patriarcali. I desideri e i sogni sono colorati, prendono spazio, escono dalla casa, vivono.


La rivoluzione della protagonista avviene anche attraverso due mezzi di rappresentazione: la macchina da presa e lo specchio. In una scena emblematica del film, compare la suo alter ego riflessa allo specchio con in mano la camera, andando a suggerire l’equiparazione tra l’esperienza di identificazione cinematografica e gli stati onirici: entrambi offrono un’esperienza che può anche essere distante dalla realtà quotidiana, richiedendo una temporanea sospensione della vita ordinaria e delle regole annesse, permettendo di esplorare, talvolta in modo esplicito, esigenze e desideri che potrebbero altrimenti inammissibili nella vita reale, e Suzan Pitt questo lo sa bene. Dopo qualche secondo, termina l’atto di auto-voyeurismo e il soggetto pare prendere consapevolezza di sé e delle proprie fantasie. Consapevolezza ancora troppo ingombrante per il mondo a lei esteriore in cui è suo malgrado immersa: a fine cortometraggio le tende della casa, così come gli occhi, si chiudono, e il sogno ricomincia.


Margherita Conti

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