“Guilty”: la violenza di genere in India

Se la notizia di poche ore fa della condanna a 23 anni di carcere per violenza sessuale di Harvey Weinstein può farci tirare un sospiro di sollievo, la strada per sentirsi veramente libere di denunciare gli abusi è ancora molto lunga e può rivelarsi più o meno tortuosa a seconda delle norme legislative e della cultura del Paese in cui ci si trova. In India, ad esempio – in uno dei sistemi culturali in cui il patriarcato affonda radici profonde –, il #MeToo ha fatto la propria comparsa nell’ottobre 2018 nel quadro dello star system bollywoodiano, per poi penetrare nel mondo dei media e della politica. Ma se negli Stati Uniti il Primo Emendamento protegge la libertà di espressione del singolo, in India le donne che denunciano abusi e non riescono a fornire prove tangibili della violenza (quindi nella stragrande maggioranza dei casi) possono essere accusate di diffamazione criminale e rischiare fino a due anni di carcere. Basta un Tweet per finire in prigione.


Con Guilty – produzione originale Netflix India –, la regista Ruchi Narain sceglie di indagare proprio uno di questi casi: la denuncia via Twitter di una studentessa di un prestigioso college che accusa di stupro un compagno nella benpensante e anglofona Nuova Delhi. Ma cosa succede quando l’accusato è il popolare e privilegiato VJ, notoriamente innamorato della fidanzata Nanki, e l’accusatrice Tanu è nota fra i compagni di corso per gli abiti succinti, l’atteggiamento provocatorio e la costante e disperata ricerca di attenzioni? Naturalmente, succede che nessuno crede a Tanu e perfino Nanki, presentata al pubblico come brillante femminista, non esita a difendere VJ, stigmatizzando l’atteggiamento di Tanu e il suo aspetto (slut-shaming).


La ricerca della verità da parte di Nanki e la progressiva messa in crisi delle sue certezze si sviluppano con qualche difficoltà diegetica – linee narrative avviate e poi abbandonate, affastellarsi di personaggi poco definiti, finale a dir poco tirato –, ma il punto di vista di Nanki e per estensione quello delle sue autrici Narain e Kanika Dhillon risultano estremamente incisivi. Nonostante la strumentalizzazione mediatica del caso e il tentativo della ricca famiglia di VJ di insabbiare l’accaduto – e a prescindere dal fatto che lo stupro sia avvenuto o meno –, è la prospettiva di Nanki a dominare lo schermo, ed è tanto reale, potente ed efficace che è facile riconoscersi in lei. Non solo il fastidio che proviamo nel camminare per strada sentendoci costantemente sguardi addosso e la paura di imbatterci in situazioni spiacevoli, ma anche e soprattutto la rabbia e la frustrazione all’ennesima occhiata di un passante, all’essere urtate “per sbaglio” dall’uomo che ci passa accanto o che sta in piedi di fronte a noi in metropolitana.


Ma soprattutto relazionarsi a un uomo – per Nanki è Danish, il giovane avvocato che sta raccogliendo il materiale per istruire il caso – con la costante angoscia di capire se le sue intenzioni siano maliziose o meno (ripensando alle parole dette, ai gesti compiuti per cercare segnali e messaggi nascosti), sentendoci spesso persino noi quelle maliziose o paranoiche nel voler vedere ombre dove magari non ce ne sono; perché alla fine quello che ci sentiamo dire da sempre è “keep quiet”, non fare rumore, perché lui è più grosso di te, è più forte di te, è più potente di te. Guilty invece fa parlare le sue protagoniste: una su Twitter e l’altra con un microfono su un palcoscenico di fronte a tutta la scuola, Tanu e Nanki dicono la verità, e soprattutto costringono gli altri ad ascoltare.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Cosa vedere su MUBI a dicembre

MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso curatoriale cinematografico.

Per aiutarvi a orientarvi in questa sterminata cineteca online, qui trovate una nostra lista di titoli da non perdere sulla piattaforma; tra nuovi sguardi, perle del passato da riscoprire e titoli che ci hanno colpito in giro per i festival di tutto il mondo.

Rapado, Martin Rejtman, 1992 (5 novembre)

Lucio è un giovane costretto a vivere con i genitori. Dopo il furto della sua moto, vagabonda senza meta per Buenos Aires, passando da arcade a negozi di dischi, e concedendosi brevi chiacchiere con gli amici prima di tornare in strada solo. Esordio di Rejtman, Rapado è considerato il film che ha lanciato il nuovo cinema argentino e prefigura quello che sarà il suo tipico stile comico, imbevuto di languida malinconia e umorismo impassibile.

Forty Shades of Blue, Ira Sachs, USA, 2005 (18 novembre)

Un produttore alcolista e donnaiolo, famoso nella vivace scena musicale di Memphis, un’amicizia che travalica i confini di una proibita passione amorosa, intrisa di tradimenti e di pericoli, e una distanza insormontabile tra padre e figlio sono i pilastri narrativi su cui si regge Forty Shades of Blue (2005). Il film affronta infatti con maestria la tematica della lontananza, non solo fisica ma anche emotiva: Laura (Dina Korzun), la fidanzata del protagonista, rappresenta l’emblema di una solitudine a tratti incontrollabile, ma soprattutto inconfessabile. Nonostante il benessere economico e gli agi di un’esistenza lussuosa, non riesce a esprimere né elaborare la propria sofferenza emotiva, in un’atmosfera relazionale caratterizzata dalla costante mancanza di dialogo e di punti di riferimento: i pensieri in testa sussultano, mentre la voce trema, fino a soffocare.

Cesária Évora, Ana Sofia Fonseca, Portogallo, 2022 (22 novembre)

Il documentario ricama tra scene e riprese quotidiane la difficile esistenza dell’omonima cantante capoverdiana, nata nel 1941 e morta nel 2011. Il sottotitolo italiano, La Diva dai piedi scalzi rimanda non soltanto all’usanza della protagonista di esibirsi a piedi nudi, ma anticipa anche metaforicamente un punto cruciale del film: la montagna russa di problemi che la protagonista ha dovuto affrontare per diventare famosa, a partire da uno stato di miseria e povertà assoluta, causa di una traumatica mancanza di libertà individuale. Fin dall’infanzia in orfanotrofio, in cui Cesária ha iniziato a esibirsi nel coro, la passione per la musica ha sempre costituito per l’artista uno strumento di evasione e di speranza, di oltrepassare tutte le vessazioni e i pregiudizi razziali che la porterà in giro per tutto il mondo, animata da quel forte ideale di riscatto che traspare anche dal libro La linea del colore di Igiaba Scego (Bompiani, 2020): “Andava a cercare una specie di libertà”.

Ryuichi Sakamoto: Coda, Stephen Nomura Schible, USA/Giappone, 2017 (22 novembre)

La carriera del musicista giapponese raccontata nel film risulta segnata da due eventi particolarmente rilevanti e d’impatto: il gravissimo incidente nucleare di Fukushima (2011) e la diagnosi di cancro alla gola. “Ripartire dalle macerie” è il monito che pervade la pellicola, innescando una dinamica profondamente toccante: traendo ispirazione dai momenti bui della sua esistenza, Sakamoto si impegna nella difesa e tutela dell’ambiente, e di conseguenza degli esseri umani che lo abitano. Se il destino ha infatti portato il compositore a morire a 71 anni, la sua ambizione e speranza personali hanno oltrepassato i limiti della sua esistenza materiale grazie alla musica. Per rivivere l’ultimo concerto di Sakamoto in tutta la sua enfasi, rimandiamo al film Ryuichi Sakamoto: Opus (2023), diretto da Neo Sora.

Don’t Let Them Shoot the Kite, Tunç Başaran, Turchia, 1989 (23 novembre)

Basato sull’omonima novella del 1986 di Feride Çiçekoğlu, il film racconta di Nur Surer, una prigioniera politica turca che durante la reclusione crea un rapporto inaspettato e sincero con un bambino di soli cinque anni. Don’t Let Them Shoot the Kite racconta così la realtà violenta e angosciante della vita carceraria con i suoi intrighi e le sue minacce, ma anche con i momenti di candore e purezza che nascono negli spazi in cui Inci e Baris costruiscono la loro amicizia. La protagonista si ritrova a riflettere su come lo spirito creativo e sognante del bambino, pur all’interno di quelle mura, possa diventare un tutt’uno con la realtà, facendole riscoprire l’energia e la spensieratezza che, dopo l’infanzia, tendiamo a perdere. Quanto ognuno di noi è prigioniero dentro la propria prigione personale? E, nella nostra quotidianità, c’è ancora spazio per l’innocenza?

The Tango of the Widower and Its Distorting Mirror, Raúl Ruiz e Valeria Sarmiento, Cile, 2020 (25 novembre)

Un’opera ibrida iniziata da Raúl Ruiz nel 1967 e terminata dalla regista (e sua moglie) Valeria Sarmiento, dopo la morte di lui. Un viaggio all’interno della psiche umana che mostra come la mente sia in grado di distorcere la realtà e deformare i ricordi fino a trasformarli in ossessioni. Il professore protagonista, tormentato dal fantasma della moglie, perde rapidamente il contatto con la realtà, immergendosi di conseguenza in una pericolosa danza col proprio passato e i suoi demoni interiori. Emerge così quanto siano sottili i confini tra realtà e percezioni, trasmettendo l’angosciante sensazione dell’incombenza del caos sulle nostre vite.

The Wandering Soap Opera, Raúl Ruiz e Valeria Sarmiento, Cile, 2017 (25 novembre)

Ambientato in un mondo dove il grottesco regna sovrano, il film decostruisce con ironia il formato delle soap opera, trasformandolo in una satira surreale della società cilena contemporanea. Episodi apparentemente scollegati tra loro esplorano con leggera sagacia temi complessi come le dinamiche di potere, il trauma e l’assurdità dell’esistenza. Ruiz e Sarmiento mescolano così black humour e dialoghi criptici per creare un’opera che sfida la linearità narrativa e invita il pubblico a immergersi in un viaggio onirico fatto di caos, riflessioni esistenziali e improvvisazione artistica. La struttura non lineare e i dialoghi stranianti lasciano aperta la possibilità di molteplici interpretazioni, giocando con la confusione tra realtà e finzione per rivelare il carattere labile della nostra percezione del mondo.

Witches, Elizabeth Sankey, UK, 2024 (Cartellone)

Donne uccise al rogo durante i cosiddetti processi alle streghe, prive di colpe se non quella di essere irriducibilmente ribelli; ma anche donne considerate pazze e ricoverate in psichiatria: sono queste le storie che si susseguono e si intrecciano alla narrazione dei mesi successivi al parto della regista, Elizabeth Sankey, che emerge come voce fuoricampo nel documentario Witches. Testimonianze di figure professionali del settore medico si mescolano ai racconti di vittime del sistema sanitario, isolate, etichettate ed emarginate dalla società, in un’atmosfera dal forte richiamo hitchcockiano e che richiama il libro E ti chiameranno strega di Katia Tenti (Neri Pozza, 2024). Il film mette così in luce, con sapienza e innovazione, tutta una serie di innocenti condannate, come le donne in depressione post-partum, una condizione ancora troppo spesso sottovalutata e denigrata nell’impatto che esercita sulle relazioni personali e sul rapporto con se stesse.

Safari, Ulrich Seidl, Austria/Danimarca, 2016 (Cartellone)

Nelle lande selvagge dell’Africa dominate da tragelafi, impala, gnu e altri animali maestosi, le persone bianche vanno in vacanza per divertirsi con queste creature, nello specifico turisti tedeschi e austriaci che attraversano metà mondo per andare a inseguire le loro prede. Un film sull’uccisione, e sulla natura umana. Un tagliente documentario che prende di mira con spietatezza il turismo venatorio in Africa, mettendo il pubblico nei panni di questi cacciatori, dei quali cattura il razzismo e le contraddizioni in modo esplicito e grottesco.

Trailer of the Film That Will Never Exist: “Phony Wars”, Jean-Luc Godard, Francia/Svizzera, 2023 – Esclusiva

Godard pianifica un futuro adattamento del romanzo del 1937 Faux passeports di Charles Plisnier, ma si ferma al trailer del film, in cui lo descrive attraverso un complicato collage di storia, politica e cinema fatto di carta e colla, dipinti e cartoline, Šostakovič e silenzio. Primo progetto di Godard uscito dopo la sua morte, è un dono per i cinefili, creato in collaborazione con la teorica del cinema Nicole Brenez.

La redazione

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

Cosa vedere su MUBI a dicembre

MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso curatoriale cinematografico.

Per aiutarvi a orientarvi in questa sterminata cineteca online, qui trovate una nostra lista di titoli da non perdere sulla piattaforma; tra nuovi sguardi, perle del passato da riscoprire e titoli che ci hanno colpito in giro per i festival di tutto il mondo.

Rapado, Martin Rejtman, 1992 (5 novembre)

Lucio è un giovane costretto a vivere con i genitori. Dopo il furto della sua moto, vagabonda senza meta per Buenos Aires, passando da arcade a negozi di dischi, e concedendosi brevi chiacchiere con gli amici prima di tornare in strada solo. Esordio di Rejtman, Rapado è considerato il film che ha lanciato il nuovo cinema argentino e prefigura quello che sarà il suo tipico stile comico, imbevuto di languida malinconia e umorismo impassibile.

Forty Shades of Blue, Ira Sachs, USA, 2005 (18 novembre)

Un produttore alcolista e donnaiolo, famoso nella vivace scena musicale di Memphis, un’amicizia che travalica i confini di una proibita passione amorosa, intrisa di tradimenti e di pericoli, e una distanza insormontabile tra padre e figlio sono i pilastri narrativi su cui si regge Forty Shades of Blue (2005). Il film affronta infatti con maestria la tematica della lontananza, non solo fisica ma anche emotiva: Laura (Dina Korzun), la fidanzata del protagonista, rappresenta l’emblema di una solitudine a tratti incontrollabile, ma soprattutto inconfessabile. Nonostante il benessere economico e gli agi di un’esistenza lussuosa, non riesce a esprimere né elaborare la propria sofferenza emotiva, in un’atmosfera relazionale caratterizzata dalla costante mancanza di dialogo e di punti di riferimento: i pensieri in testa sussultano, mentre la voce trema, fino a soffocare.

Cesária Évora, Ana Sofia Fonseca, Portogallo, 2022 (22 novembre)

Il documentario ricama tra scene e riprese quotidiane la difficile esistenza dell’omonima cantante capoverdiana, nata nel 1941 e morta nel 2011. Il sottotitolo italiano, La Diva dai piedi scalzi rimanda non soltanto all’usanza della protagonista di esibirsi a piedi nudi, ma anticipa anche metaforicamente un punto cruciale del film: la montagna russa di problemi che la protagonista ha dovuto affrontare per diventare famosa, a partire da uno stato di miseria e povertà assoluta, causa di una traumatica mancanza di libertà individuale. Fin dall’infanzia in orfanotrofio, in cui Cesária ha iniziato a esibirsi nel coro, la passione per la musica ha sempre costituito per l’artista uno strumento di evasione e di speranza, di oltrepassare tutte le vessazioni e i pregiudizi razziali che la porterà in giro per tutto il mondo, animata da quel forte ideale di riscatto che traspare anche dal libro La linea del colore di Igiaba Scego (Bompiani, 2020): “Andava a cercare una specie di libertà”.

Ryuichi Sakamoto: Coda, Stephen Nomura Schible, USA/Giappone, 2017 (22 novembre)

La carriera del musicista giapponese raccontata nel film risulta segnata da due eventi particolarmente rilevanti e d’impatto: il gravissimo incidente nucleare di Fukushima (2011) e la diagnosi di cancro alla gola. “Ripartire dalle macerie” è il monito che pervade la pellicola, innescando una dinamica profondamente toccante: traendo ispirazione dai momenti bui della sua esistenza, Sakamoto si impegna nella difesa e tutela dell’ambiente, e di conseguenza degli esseri umani che lo abitano. Se il destino ha infatti portato il compositore a morire a 71 anni, la sua ambizione e speranza personali hanno oltrepassato i limiti della sua esistenza materiale grazie alla musica. Per rivivere l’ultimo concerto di Sakamoto in tutta la sua enfasi, rimandiamo al film Ryuichi Sakamoto: Opus (2023), diretto da Neo Sora.

Don’t Let Them Shoot the Kite, Tunç Başaran, Turchia, 1989 (23 novembre)

Basato sull’omonima novella del 1986 di Feride Çiçekoğlu, il film racconta di Nur Surer, una prigioniera politica turca che durante la reclusione crea un rapporto inaspettato e sincero con un bambino di soli cinque anni. Don’t Let Them Shoot the Kite racconta così la realtà violenta e angosciante della vita carceraria con i suoi intrighi e le sue minacce, ma anche con i momenti di candore e purezza che nascono negli spazi in cui Inci e Baris costruiscono la loro amicizia. La protagonista si ritrova a riflettere su come lo spirito creativo e sognante del bambino, pur all’interno di quelle mura, possa diventare un tutt’uno con la realtà, facendole riscoprire l’energia e la spensieratezza che, dopo l’infanzia, tendiamo a perdere. Quanto ognuno di noi è prigioniero dentro la propria prigione personale? E, nella nostra quotidianità, c’è ancora spazio per l’innocenza?

The Tango of the Widower and Its Distorting Mirror, Raúl Ruiz e Valeria Sarmiento, Cile, 2020 (25 novembre)

Un’opera ibrida iniziata da Raúl Ruiz nel 1967 e terminata dalla regista (e sua moglie) Valeria Sarmiento, dopo la morte di lui. Un viaggio all’interno della psiche umana che mostra come la mente sia in grado di distorcere la realtà e deformare i ricordi fino a trasformarli in ossessioni. Il professore protagonista, tormentato dal fantasma della moglie, perde rapidamente il contatto con la realtà, immergendosi di conseguenza in una pericolosa danza col proprio passato e i suoi demoni interiori. Emerge così quanto siano sottili i confini tra realtà e percezioni, trasmettendo l’angosciante sensazione dell’incombenza del caos sulle nostre vite.

The Wandering Soap Opera, Raúl Ruiz e Valeria Sarmiento, Cile, 2017 (25 novembre)

Ambientato in un mondo dove il grottesco regna sovrano, il film decostruisce con ironia il formato delle soap opera, trasformandolo in una satira surreale della società cilena contemporanea. Episodi apparentemente scollegati tra loro esplorano con leggera sagacia temi complessi come le dinamiche di potere, il trauma e l’assurdità dell’esistenza. Ruiz e Sarmiento mescolano così black humour e dialoghi criptici per creare un’opera che sfida la linearità narrativa e invita il pubblico a immergersi in un viaggio onirico fatto di caos, riflessioni esistenziali e improvvisazione artistica. La struttura non lineare e i dialoghi stranianti lasciano aperta la possibilità di molteplici interpretazioni, giocando con la confusione tra realtà e finzione per rivelare il carattere labile della nostra percezione del mondo.

Witches, Elizabeth Sankey, UK, 2024 (Cartellone)

Donne uccise al rogo durante i cosiddetti processi alle streghe, prive di colpe se non quella di essere irriducibilmente ribelli; ma anche donne considerate pazze e ricoverate in psichiatria: sono queste le storie che si susseguono e si intrecciano alla narrazione dei mesi successivi al parto della regista, Elizabeth Sankey, che emerge come voce fuoricampo nel documentario Witches. Testimonianze di figure professionali del settore medico si mescolano ai racconti di vittime del sistema sanitario, isolate, etichettate ed emarginate dalla società, in un’atmosfera dal forte richiamo hitchcockiano e che richiama il libro E ti chiameranno strega di Katia Tenti (Neri Pozza, 2024). Il film mette così in luce, con sapienza e innovazione, tutta una serie di innocenti condannate, come le donne in depressione post-partum, una condizione ancora troppo spesso sottovalutata e denigrata nell’impatto che esercita sulle relazioni personali e sul rapporto con se stesse.

Safari, Ulrich Seidl, Austria/Danimarca, 2016 (Cartellone)

Nelle lande selvagge dell’Africa dominate da tragelafi, impala, gnu e altri animali maestosi, le persone bianche vanno in vacanza per divertirsi con queste creature, nello specifico turisti tedeschi e austriaci che attraversano metà mondo per andare a inseguire le loro prede. Un film sull’uccisione, e sulla natura umana. Un tagliente documentario che prende di mira con spietatezza il turismo venatorio in Africa, mettendo il pubblico nei panni di questi cacciatori, dei quali cattura il razzismo e le contraddizioni in modo esplicito e grottesco.

Trailer of the Film That Will Never Exist: “Phony Wars”, Jean-Luc Godard, Francia/Svizzera, 2023 – Esclusiva

Godard pianifica un futuro adattamento del romanzo del 1937 Faux passeports di Charles Plisnier, ma si ferma al trailer del film, in cui lo descrive attraverso un complicato collage di storia, politica e cinema fatto di carta e colla, dipinti e cartoline, Šostakovič e silenzio. Primo progetto di Godard uscito dopo la sua morte, è un dono per i cinefili, creato in collaborazione con la teorica del cinema Nicole Brenez.

La redazione

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