Cosa ci resta di umano (al cinema) nell’era dell’AI?

Nel 2002 usciva nei cinema Minority Report di Steven Spielberg, film ambientato in un futuro distopico in cui l’umanità è riuscita a elaborare una tecnologia in grado di prevedere ogni crimine: attraverso l’utilizzo di immagini digitali, è possibile individuare le persone che commetteranno dei crimini e quali, permettendo così alle forze dell’ordine di prevenirli. Tutto cambia però quando il poliziotto John Anderton scopre di essere un futuro omicida. Da qui in poi, la narrazione solleva una serie di domande sul controllo digitale e sulle sue ripercussioni, suggerendo di leggere il film come un bigino sulle paranoie di un’America reduce dall’undici settembre che non sarebbe più stata la stessa.


Osservando il film a posteriori, nello sdoppiamento tra l’Anderton digitale che commette il crimine e quello reale c’è tanto del nostro rapporto con l’immagine oggi, nell’era dei selfie, dei social network e dell’AI. Le narrazioni fantascientifiche hanno sempre avuto un doppio valore: da una parte parlare della nostra società, dall’altra cercare di tratteggiare con lungimiranza – e con poca speranza – gli esiti degli sviluppi tecnologici con le loro conseguenze politiche, economiche, culturali e sociali. Ma ora che l’intelligenza artificiale – antica paura dell’uomo del ventunesimo secolo – è ormai una presenza concreta e pervasiva nelle nostre vite, ora che perfino le narrazioni fantascientifiche sembrano non stare al passo con la sempre maggior velocità dello sviluppo digitale, cosa ha ancora da dirci oggi la fantascienza? 

Al momento in sala, Another End di Pietro Messina – presentato in concorso alla Berlinale – racconta la storia di Sal, un uomo che ha recentemente perso la compagna, Zoe, in un incidente stradale e che riesce attraverso una nuova tecnologia a dirle addio un’ultima volta. Another End è proprio il nome di questa invenzione, che permette di traslare momentaneamente la coscienza di persone defunte nel corpo di altre persone che si prestano come involucri (detti “host”). Solo che Sal non riesce davvero a dire addio a Zoe, si attacca alla donna che ospita la sua coscienza con morbosa caparbietà e si rifiuta di affrontare il lutto.


Il film ci parla delle dinamiche dell’attaccamento e della nostra incapacità di lasciare andare, di accettare la morte, e quindi dell’insaziabile brama umana di superare i limiti naturali, di forzare le condizioni fisiche all’inseguimento di una longevità fittizia, desiderata essenzialmente come risposta inconsapevole alla paura di scomparire e ottenuta attraverso un rapporto quasi parassitario con le macchine ospedaliere che ci tengono in vita. Se questo il rifiuto della morte era prima legato esclusivamente alla componente fisica, oggi la questione sfocia nella coscienza, causando un profondo disagio nel trovarci di fronte a profonde questioni esistenzialiste e nel fare i conti limiti di cosa è e non è umano.

L’interesse per il rapporto umanità-macchina, ora traslato in essere umano-intelligenza artificiale, non è limitato al cinema, e la curiosità nei confronti della rapida rivoluzione robotica e dell’AI straborda anche in altre forme artistiche, come il teatro: nell’ultimo spettacolo dei Agrupacion Senor Serrano Una Isla, costituito interamente da un dialogo tra il collettivo e una AI, è lo scambio tra umano e robotico a creare le isole che percorriamo con lo sguardo, a costruire dialoghi e movimento.


Inoltre, da un punto di vista di scenario e connotazione estetica, sembrerebbe che gli spazi al neon e ipersaturati della prima fantascienza abbiano lasciato il posto alla fredda contemporaneità: non esiste più il futuro lontano abitato da macchine volanti e automi servizievoli, esiste l’oggi, abitato da un’umanità profondamente inquietata dall’idea di perdere la propria unicità e centralità. E così Another End si svolge in una qualsiasi metropoli europea, alienante a causa della mancanza di riferimenti storici (monumenti, iconografie…) eppure estremamente vicina a noi.

L’epoca contemporanea viene spesso definita Antropocene, in riferimento alla centralità dell’uomo nei cambiamenti della terra e del suo ecosistema. In risposta – quasi – a questa definizione, Donna J. Haraway, scienziata e teorica femminista, teorizza nel suo libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto una nuova modalità di comprensione delle dinamiche evolutive. In una forma di pensiero post-umanista Haraway ci invita a pensare alla realtà come a una serie di fitte connessioni sotterranee tra specie.


Una visione che ridimensiona notevolmente il ruolo dell’essere umano nelle dinamiche dello stesso pianeta che abitiamo. Secondo Haraway è infatti sempre più necessario guardare alle tecnologie con occhio critico ma senza paura, nello stesso modo in cui ci rapportiamo con gli animali domestici, ovvero come “compagni non-umani”, alleati su cui fare affidamento. Forse la vera utopia – se poi di utopia sia tratta per davvero – è quella di Matrix Resurrections impressa nelle parole di Niobe: eravamo convinti che l’idea fosse noi (umani) o loro (le macchine), ma questa città l’abbiamo costruita noi e loro.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

“All We Imagine as Light”: il cinema della regista indiana Payal Kapadiya, tra poetica e politica

All We Imagine as Light cala definitivamente il cinema di Payal Kapadiya dentro a un territorio ibrido e inquieto: in quella crepa che negli ultimi decenni si è aperta tra il documentario e la fiction, tra la ricerca di un girato autentico e l’arco narrativo di storie sceneggiate, dove i confini possono essere confusi continuamente. Una carrellata dà inizio al film: le babeliche strade di Mumbai sono riprese dalla camera car che trema, sostenuta solo da racconti speranzosi e alienanti, testimonianze varie di vissuti cittadini. Un voice over polifonico che però apre subitaneamente le porte alla storia di due colleghe, coinquiline e amiche, Prabha e Anu, separate dagli anni ma unite da sentimenti e desideri nuovi e vecchi che si affacciano, o si ripropongono, nella loro vita.


Payal Kapadiya, al suo secondo film, appare già una promessa del World Cinema del futuro, sul solco di un percorso impostato con grande solidità contestualmente agli studi al Film and Television Institute of India, quando ha realizzato i suoi primi cortometraggi scegliendo di affrontare temi e indagini formali che riprenderà nei film successivi. In particolare, sono due le marche autoriali che, messe costantemente in relazione, sembrano creare la struttura della sua filmografia: l’ambiente circostante ai personaggi, che sia la natura stessa o la civiltà che scivola progressivamente verso la natura per ritrovarsi – come è anche in All We Imagine as Light –, e il lavoro ricercato sul suono, che permea le immagini di suoni acusmatici e di una costante voce umana, in voice over o off.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel cortometraggio The Last Mango Before the Monsoon (2015) erano due scienziati a infrangersi sul mondo naturale, camminando faticosamente attraverso la foresta per catturare (documentare) i movimenti degli animali durante la notte, servendosi delle immagini delle telecamere. Il contrappunto sonoro e visivo era dato da una donna anziana, lontana, in città, che quelle foreste aveva abbandonato: un contrappunto d’amore, di ricordo, del marito ormai defunto. E qui c’era già tutto. Dalla memoria parlata al paesaggio sensoriale che il cinema può restituire, nel suono della voce umana e nel suono della natura, nei contrasti e nelle frizioni dei diversi punti di vista.


And What Is the Summer Saying? (2018) è ambientato nel remoto villaggio di Kondwall, nell’India centro-occidentale, in cui gli spiriti degli animali, delle rocce e degli alberi risuonavano al ritmo delle donne che sussurravano i loro amori perduti, mentre un giovane si recava a caccia di miele nella foresta e uno strano fumo si sprigionava dalla terra. Nel bianco e nero delle sequenze girate di giorno, nel colore illuminato dalla luna e dai fuochi notturni, nell’apparizione di icone sacre aggiunte in animazione, l’onirico si inscriveva nel misterioso, aprendo a scorci di verità impensate fino alla visione stessa. È così e da subito un cinema di liberazione, quello di Payal Kapadiya, in cui mettere in condizione il pubblico, a partire dalla visione e dall’ascolto, di lottare insieme ai personaggi, costretti a instaurare una connessione con l’ambiente che li circonda attraverso il superamento di forze misteriose (di volta in volta naturali, fantasmatiche o sociali) che tendono a degradare la loro capacità connettiva.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel suo primo lungometraggio documentario, A Night of Knowing Nothing, la libertà era ancora di più la libertà del cinema come medium, o del cinema come mezzo per raggiungere la libertà: il tema del rapporto dell’essere umano con l’ambiente circostante è qui delegato all’osservazione delle proteste studentesche del 2015, che avevano scosso anche il Film and Television Institute of India. Più che l’osservazione, sarebbe meglio dire l’azione: l’azione della macchina da presa e del medium, l’azione capace di catturare una istanza, di registrare una lotta collettiva (quella di giovani stanchi del sistema classista del potere indiano e della difficoltà di accesso all’istruzione e all’informazione) e di farsi corpo con essa. Un documentario levigato però da una cornice di realtà trasformata in narrazione, nella quale (vere) lettere d’amore di una studentessa al fidanzato intervallavano le immagini delle proteste studentesche con scampoli di sogni e visioni, in una tensione irrisolta tra poetico e politico.


Ed ecco che All We Imagine as Light, che ha portato a Payal Kapadiya il Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes, richiama tutte queste rifrazioni precedenti: come se la regista fosse già talmente dentro al suo cinema, e alla sensibilità del cinema contemporaneo, pur essendo al suo secondo film, da creare cerchi concentrici che propagano figure stilistiche e concettuali che a loro volta si rincorrono in un terreno indefinito tra documentario (la ripresa di immagini, suoni e voci dalla realtà) e finzione. Ma una finzione che non si palesa solo nell’esigenza dell’intreccio, bensì nella memoria come immaginazione futura e nei fantasmi come rappresentazione viva. È centrale in questo senso l’incontro che l’infermiera Prabha (una Kani Kusruti dagli occhi tristissimi e al contempo pieni di vitalità) ha nella seconda parte del film, quando le protagoniste lasceranno la città e temporaneamente il loro lavoro nell’ospedale di Mumbai per recarsi sulla costa indiana. Nel corpo e nel volto di un uomo che dall’oceano viene trasportato, quasi morente, sulla spiaggia, Prabha non può che riconoscervi una persona troppo lontana per essere davvero lì: un’entità tra la vita e la morte, ma di carne, e attraverso quel corpo Prabha può medicare e ricucire le ferite di una vita, per guardare finalmente avanti.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

In All We Imagine as Light le storie d’amore delle due protagoniste, così diverse nelle diverse fasi della loro vita, sono accomunate dalla volontà di governarle attraverso il rapporto tra i propri pensieri, esposti attraverso la voce e lo sguardo che gli occhi posano sul mondo. Tanto che le immagini del film, della città e degli elementi ambientali (o atmosferici) non assumono facilmente uno statuto oggettivo, ma appaiono come emanazioni dirette delle vite di Prabha e della studentessa Anu. Ad esempio nella sequenza che arriva come più immediata e più rimane nella memoria, quella delle comunicazioni telefoniche (per messaggio) che sembrano però epistolari (ancora la forma della lettera) di Anu per il ragazzo che ha appena conosciuto. Parole d’amore, e di fremito, si agganciano alle nuvole grigie in corsa: correlativo oggettivo, sul crinale tra l’indomito e il lezioso, delle nuove emozioni che prova la giovane donna.


Payal Kapadiya si pone la questione di come il linguaggio possa essere libero di imprimersi sopra quel mondo: la voce off, per l’appunto, che si imprime sul mondo delle immagini filmate dalla realtà, proprio perché liberata dalla sua fonte. Ed è così che la regista denuncia, mettendolo in scena, come il linguaggio abbia il dovere di leggere la realtà (quella dei personaggi, e quella del mondo fuori) e così farla sua, per comprenderla – e comprendersi fino in fondo – o amarla – e amarsi davvero. Fino alle spiagge bianche del silenzio, quelle che chiudono All We Imagine As Light: alla fine del mondo, dove Prabha e Anu contemplano l’arrivo di una vera libertà, quella del cinema del futuro.

“La nave sepolta” e la possibilità di sopravvivere al tempo

Basato sulla vera storia degli scavi di Sutton Hoo e sull’omonimo libro di John Preston, La Nave Sepolta (disponibile su Netflix) è un film crepuscolare, lento e introspettivo, che si concretizza in un racconto corale incentrato sulla memoria che resta dopo la morte o quanto meno sulla sopravvivenza della vita oltre certi limiti del tempo e della storia. Al centro c’è uno scavo archeologico, avvenuto nel Suffolk nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, durante il quale venne ritrovata un’antica nave del VII secolo, sepolcro rituale del Re vichingo Raedwald. Una scoperta straordinaria che permise non solo di riportare a galla un vero e proprio tesoro sepolto, ma anche di far luce su un periodo e una civiltà ritenuta fino ad allora barbara e incivile, priva di cultura e di significative espressioni di arte. Quel tesoro, tenuto nascosto per tutta la durata della guerra all’interno di una stazione della metropolitana di Londra, avrebbe fatto la sua comparsa solo diversi anni più tardi al British Museum, attraverso una donazione della Signora Pretty – interpretata magistralmente nel film da una pacata quanto sofferta Carey Mulligan.

Diretto dal registra australiano Simon Stone con un cast inglese d’eccezione in cui spiccano Ralph Phiennes, Lily James e Johnny Flynn, il film rende omaggio alla cultura e alla storia, intese come dimensioni che dovrebbero essere accessibili a qualunque essere umano e non relegate a un lusso e un privilegio per pochi. Il regista muove così un’efficace quanto sottile critica allo snobismo intellettuale delle istituzioni accademiche e museali, ormai consolidate e retrograde, spocchiosamente ignoranti in tutto il film (incluso il British Museum), incapaci di apprezzare il valore del singolo, come nel caso dell’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Phiennes), responsabile della scoperta e della datazione della nave, nonché di condividere fino in fondo quella cultura e quel sapere di cui si arrogano il diritto di porsi come detentori e simbolo. Ed è così la vedova Pretty, proprietaria del terreno, a ergersi a vera promotrice della cultura dalle ampie e moderne vedute, decidendo spontaneamente, dopo l’acquisita potestà in tribunale del tesoro ritrovato, di donarlo gratuitamente al British Museum, affinché dopo la guerra possa divenire un motivo di conoscenza, identità e curiosità per l’intera nazione. La Nave Sepolta, film sottilmente rivoluzionario, tratteggia la Signora Pretty come donna femminista ante litteram, e lo stesso vale per Peggy Piggott (Lily James), donna quanto mai esperta nel suo lavoro ma disprezzata e sottovalutata per il suo sesso, rinchiusa in un matrimonio privo di passione con un collega forse omosessuale ma decisa a emanciparsi non solo dimostrando il proprio talento ma scegliendo liberamente di non sottostare più a un’unione infelice e degradante.

Delicato, profondo, ben recitato e moderno, il film fa uso del grandangolo a restituire la gravità della narrazione, indugiando sui vasti orizzonti dai colori caldi e le tinte ocra, crepuscolari, che pervadono un Suffolk incontaminato, vergine, fatto di campi e spazi in cui gente semplice vive lontana da ogni ipocrisia, via dalle presunzioni di una società troppo “imparata”.  La sceneggiatura di Moira Buffini tesse un film di contrasti, in cui i destini dei personaggi si intrecciano in una stessa missione, nella stessa corsa contro il tempo, minata dall’avvicinarsi incombente della guerra e della morte. La morte che, sotto forma di guerra, si avvicina quasi a sfiorare il piccolo gruppo di ricercatori spersi nelle campagne del Suffolk, indulge nella malattia degenerativa della signora Pretty e infine si affaccia nelle sembianze della stessa nave funeraria, strappata alla terra dalle mani esperte del Signor Brown.

Il tema centrale del film è infatti la celebrazione della vita e la possibilità della vita eterna, non in senso strettamente religioso ma in forma più sottile: la scoperta archeologica rappresenta una possibilità, una speranza mai perduta di trascendere o superare il mare del tempo. Ne emerge una riflessione sul valore riscoperto della storia e dell’archeologia come qualcosa di cui l’uomo, al di là della sua caducità, ha sempre fatto parte e sempre ne farà, sin dai tempi delle caverne, divenendo così immortale. All’affacciarsi della guerra, della morte, della perdita, tutti i personaggi sembrano porsi la stessa domanda: cosa rimarrà di me, cosa mi lascerò dietro? L’unica parvenza di risposta concreta pare provenire dal giovane Robert Pretty, il quale, consapevole della malattia della madre, la conduce in un mistico viaggio tra le stelle per farle capire che lei, la Regina della nave, lì dovrà attenderlo, in eterno cristallizzata nella costellazione di Orione. Ma sarà attraverso la scoperta della nave, attraverso il contributo alla storiografia inglese, che i personaggi della Signora Pretty e di Basil Brown vivranno in eterno, i loro nomi incisi sui cartellini del British Museum. 

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

“All We Imagine as Light”: il cinema della regista indiana Payal Kapadiya, tra poetica e politica

All We Imagine as Light cala definitivamente il cinema di Payal Kapadiya dentro a un territorio ibrido e inquieto: in quella crepa che negli ultimi decenni si è aperta tra il documentario e la fiction, tra la ricerca di un girato autentico e l’arco narrativo di storie sceneggiate, dove i confini possono essere confusi continuamente. Una carrellata dà inizio al film: le babeliche strade di Mumbai sono riprese dalla camera car che trema, sostenuta solo da racconti speranzosi e alienanti, testimonianze varie di vissuti cittadini. Un voice over polifonico che però apre subitaneamente le porte alla storia di due colleghe, coinquiline e amiche, Prabha e Anu, separate dagli anni ma unite da sentimenti e desideri nuovi e vecchi che si affacciano, o si ripropongono, nella loro vita.


Payal Kapadiya, al suo secondo film, appare già una promessa del World Cinema del futuro, sul solco di un percorso impostato con grande solidità contestualmente agli studi al Film and Television Institute of India, quando ha realizzato i suoi primi cortometraggi scegliendo di affrontare temi e indagini formali che riprenderà nei film successivi. In particolare, sono due le marche autoriali che, messe costantemente in relazione, sembrano creare la struttura della sua filmografia: l’ambiente circostante ai personaggi, che sia la natura stessa o la civiltà che scivola progressivamente verso la natura per ritrovarsi – come è anche in All We Imagine as Light –, e il lavoro ricercato sul suono, che permea le immagini di suoni acusmatici e di una costante voce umana, in voice over o off.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel cortometraggio The Last Mango Before the Monsoon (2015) erano due scienziati a infrangersi sul mondo naturale, camminando faticosamente attraverso la foresta per catturare (documentare) i movimenti degli animali durante la notte, servendosi delle immagini delle telecamere. Il contrappunto sonoro e visivo era dato da una donna anziana, lontana, in città, che quelle foreste aveva abbandonato: un contrappunto d’amore, di ricordo, del marito ormai defunto. E qui c’era già tutto. Dalla memoria parlata al paesaggio sensoriale che il cinema può restituire, nel suono della voce umana e nel suono della natura, nei contrasti e nelle frizioni dei diversi punti di vista.


And What Is the Summer Saying? (2018) è ambientato nel remoto villaggio di Kondwall, nell’India centro-occidentale, in cui gli spiriti degli animali, delle rocce e degli alberi risuonavano al ritmo delle donne che sussurravano i loro amori perduti, mentre un giovane si recava a caccia di miele nella foresta e uno strano fumo si sprigionava dalla terra. Nel bianco e nero delle sequenze girate di giorno, nel colore illuminato dalla luna e dai fuochi notturni, nell’apparizione di icone sacre aggiunte in animazione, l’onirico si inscriveva nel misterioso, aprendo a scorci di verità impensate fino alla visione stessa. È così e da subito un cinema di liberazione, quello di Payal Kapadiya, in cui mettere in condizione il pubblico, a partire dalla visione e dall’ascolto, di lottare insieme ai personaggi, costretti a instaurare una connessione con l’ambiente che li circonda attraverso il superamento di forze misteriose (di volta in volta naturali, fantasmatiche o sociali) che tendono a degradare la loro capacità connettiva.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

Nel suo primo lungometraggio documentario, A Night of Knowing Nothing, la libertà era ancora di più la libertà del cinema come medium, o del cinema come mezzo per raggiungere la libertà: il tema del rapporto dell’essere umano con l’ambiente circostante è qui delegato all’osservazione delle proteste studentesche del 2015, che avevano scosso anche il Film and Television Institute of India. Più che l’osservazione, sarebbe meglio dire l’azione: l’azione della macchina da presa e del medium, l’azione capace di catturare una istanza, di registrare una lotta collettiva (quella di giovani stanchi del sistema classista del potere indiano e della difficoltà di accesso all’istruzione e all’informazione) e di farsi corpo con essa. Un documentario levigato però da una cornice di realtà trasformata in narrazione, nella quale (vere) lettere d’amore di una studentessa al fidanzato intervallavano le immagini delle proteste studentesche con scampoli di sogni e visioni, in una tensione irrisolta tra poetico e politico.


Ed ecco che All We Imagine as Light, che ha portato a Payal Kapadiya il Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes, richiama tutte queste rifrazioni precedenti: come se la regista fosse già talmente dentro al suo cinema, e alla sensibilità del cinema contemporaneo, pur essendo al suo secondo film, da creare cerchi concentrici che propagano figure stilistiche e concettuali che a loro volta si rincorrono in un terreno indefinito tra documentario (la ripresa di immagini, suoni e voci dalla realtà) e finzione. Ma una finzione che non si palesa solo nell’esigenza dell’intreccio, bensì nella memoria come immaginazione futura e nei fantasmi come rappresentazione viva. È centrale in questo senso l’incontro che l’infermiera Prabha (una Kani Kusruti dagli occhi tristissimi e al contempo pieni di vitalità) ha nella seconda parte del film, quando le protagoniste lasceranno la città e temporaneamente il loro lavoro nell’ospedale di Mumbai per recarsi sulla costa indiana. Nel corpo e nel volto di un uomo che dall’oceano viene trasportato, quasi morente, sulla spiaggia, Prabha non può che riconoscervi una persona troppo lontana per essere davvero lì: un’entità tra la vita e la morte, ma di carne, e attraverso quel corpo Prabha può medicare e ricucire le ferite di una vita, per guardare finalmente avanti.

All We Imagine as Light Payal Kapadiya recensione

In All We Imagine as Light le storie d’amore delle due protagoniste, così diverse nelle diverse fasi della loro vita, sono accomunate dalla volontà di governarle attraverso il rapporto tra i propri pensieri, esposti attraverso la voce e lo sguardo che gli occhi posano sul mondo. Tanto che le immagini del film, della città e degli elementi ambientali (o atmosferici) non assumono facilmente uno statuto oggettivo, ma appaiono come emanazioni dirette delle vite di Prabha e della studentessa Anu. Ad esempio nella sequenza che arriva come più immediata e più rimane nella memoria, quella delle comunicazioni telefoniche (per messaggio) che sembrano però epistolari (ancora la forma della lettera) di Anu per il ragazzo che ha appena conosciuto. Parole d’amore, e di fremito, si agganciano alle nuvole grigie in corsa: correlativo oggettivo, sul crinale tra l’indomito e il lezioso, delle nuove emozioni che prova la giovane donna.


Payal Kapadiya si pone la questione di come il linguaggio possa essere libero di imprimersi sopra quel mondo: la voce off, per l’appunto, che si imprime sul mondo delle immagini filmate dalla realtà, proprio perché liberata dalla sua fonte. Ed è così che la regista denuncia, mettendolo in scena, come il linguaggio abbia il dovere di leggere la realtà (quella dei personaggi, e quella del mondo fuori) e così farla sua, per comprenderla – e comprendersi fino in fondo – o amarla – e amarsi davvero. Fino alle spiagge bianche del silenzio, quelle che chiudono All We Imagine As Light: alla fine del mondo, dove Prabha e Anu contemplano l’arrivo di una vera libertà, quella del cinema del futuro.

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